UN BUCO NEL CERVELLO
di Guido Viale
C’è, in tutti gli articoli, i commenti, le interviste e le analisi economiche pubblicate da giornali, riviste o reti, qualcosa che lascia una sensazione di estraneità, come se parlassero di un mondo chiuso in un comparto stagno che lo separa da tutto ciò che ci succede intorno; quasi che nel cervello degli economisti si fosse aperto un buco che impedisce loro di “guardar fuori”. Le cose che gli economisti non vedono sono tante, ma la principale è senz’altro il cambiamento climatico, ormai palesemente in corso. Alcuni economisti hanno inserito un po’ di ”ambiente” tra le variabili delle loro analisi, ma del riscaldamento globale non parla nessuno. E come si può pretendere che ne prenda coscienza il vasto pubblico se i sacerdoti del mondo contemporaneo, cioè del dio denaro, non ne parlano mai? E i politici, allora?
Il comitato dell’Onu incaricato di studiare i cambiamenti climatici (IPCC) ci ha appena avvertito che il tempo per un radicale cambio di rotta nella gestione delle risorse energetiche non supera i 12 anni (scade il 2030). Poi il degrado del pianeta Terra diventerà irreversibile e accelerato. Quanti articoli, commenti o interviste di economisti italiani assumono questo dato incontestato come orizzonte delle loro analisi? Nessuno. Se del clima si parla – e se ne parla ben poco; per nulla rispetto alla sua importanza – lo si fa in un altro comparto, a tenuta stagna, dello stesso giornale o della stessa rete. L’orizzonte unico degli economisti è la “crescita” (del PIL, versione moderna di ciò che Marx chiamava accumulazione del capitale): sia considerandola – senza più alcun riscontro fattuale – via obbligata per moltiplicare occupazione, reddito e benessere; sia angosciandosi perché la nazione, l’impresa o il lavoro perdono competitività (che si difende facendo stare sempre peggio la gente comune).
Ogni altra ipotesi viene relegata nel comparto oscuro della “decrescita” (ben rappresentato, ai loro occhi di economisti e scienziati, dall’invito delle madamine SiTav torinesi a procurarsi una mucca e andare a pascolare lontano dai loro interessi): come se quell’approccio di elementare buon senso – anche se il termine decrescita la condanna a facili ironie – fosse un fine; e non un mezzo per prospettare una vita migliore, più ricca di esperienze, più soddisfacente e più giusta. Ma i suoi adepti non possono spiegarlo a tutti, perché non hanno accesso ai media.
Ma non c’è alternativa tra l’ossessione della crescita e l’equivoco della decrescita? Certo che c’è, se solo si esce dalla gabbia dei valori economici scambiati sul mercato per assumere a criterio di riferimento una cosa elementare come la sicurezza. Non la “sicurezza” di Salvini, la diffusione delle armi per difendersi (non certo da chi ti sfrutta tutti i giorni), quella che negli Stati Uniti ha spinto il tasso di omicidi per abitante a superare di 35 volte quello dell’Italia… Bensì la sicurezza di un lavoro decente, di un reddito, di una casa, della salute e dell’istruzione per tutti. Ma soprattutto, oggi che si sa quanto sia in forse, la sicurezza della salute del pianeta Terra: della casa comune in cui siamo e continueremo a restar confinati. Una sicurezza che esige di abbandonare alla svelta progetti inutili e insensati per adottare, qui e ora, migliaia di iniziative diffuse di conversione ecologica per garantire un futuro a noi e a chi verrà dopo di noi. E allora, che senso ha scavare – con tanto di analisi costi benefici tarata su prospettive di invarianza (business as usual) del contesto generale – un buco di 57 chilometri nella montagna per spedire ad alta velocità merci che tra 20 anni rischiano di non esserci nemmeno più? O costruire un tubo di 5000 chilometri per portare in Europa altro gas, quando la cosa più urgente diventerà presto tappare tutti quei tubi per sostituirli con impianti di energia rinnovabile? E così via.
E ancora, che senso ha calcolare – a parità di consumi, o addirittura tarandoli sul loro attuale trend di crescita – i costi economici di una conversione energetica? Magari per spiegare che non si può fare perché mancano le risorse necessarie? E senza calcolare – qui sì, con una bella analisi costi-benefici – anche i costi (economici, beninteso) di un rapido degrado delle condizioni di vita di tutti gli umani in mancanza di interventi rapidi e radicali, e non solo in campo energetico? E perché, allora, non calcolare anche il costo economico della scomparsa della specie umana? Già. Perché l’analisi economica, essendo una “scienza”, è talmente indipendente dai pregiudizi personali che può anche prescindere, e lo fa, dall’esistenza concreta di ciascuno di noi; compresa, ovviamente, l’esistenza degli economisti che fanno.