Il soggetto che non c’è

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 di Sergio Bellucci

La percezione diffusa è quella dell’esproprio, quella di essere derubati della possibilità di indirizzare il proprio destino, la propria vita. È una sensazione subdola, che si insinua silenziosa quasi senza che tu te ne accorga, ma con un risultato interiormente devastante. Una percezione che ci viene confermata ad ogni invio di curriculum a cui non abbiamo risposta, ad ogni invio di domanda a concorsi che sappiamo già indirizzati e lottizzati, ad ogni lavoretto che incontri e che lede la tua dignità attraverso una paga da fame o per i ricatti, doppi sensi, sotterfugi a cui devi sottostare. È la sensazione che la precarietà in cui sei obbligato, schiacciato, sia vissuta dagli altri come un virus, capace di contagiare la loro esistenza e quel rifiuto a vederti, a riconoscerti, in realtà, sia solo la paura di venire ingoiati da quella spirale che osservano senza sapere chi l’abbia creata, da dove provenga e a favore di chi vada. È quella sensazione di essere stati separati anche dalla parte a cui dovresti appartenere, quella che per vivere deve (provare a) vendere il proprio tempo a qualcun altro, quello che utilizza quel pezzo della tua vita per fare più grande la propria ricchezza. È la sensazione che le miopie e le incapacità di contrattare dei sindacati hanno finito per segmentare e dividere il “tuo” mondo invece che unire. È la sensazione che studiare e prendersi “un pezzo di carta” può anche essere un tuo diritto, ma che quello stesso riconoscimento (ormai a punti) non vale più nulla se non emesso da una qualche struttura iperselettiva alla quale non hai mai avuto mai alcuna chance di accedere.

Che le varie “riforme” di scuola e università servivano più a far quadrare le statistiche per le graduatorie internazionali sulle quali misurare “l’efficienza del sistema” (e dei ministri) più che a formare coscienze e conoscenze culturali, scientifiche. È la sensazione che se hai un problema fisico e ti devi affidare ai percorsi impostati dalle strutture sanitarie pubbliche rischi enormemente di più che se ha dei soldi da mettere sul piatto per fare analisi e interventi a pagamento. È la sensazione che se devi lavorare in una città diversa da quella che hai scelto per vivere sarai costretto a intrappolarti in vagoni bestiame pagati anche salatissimamente. È la sensazione che forse andrai in pensione quando il tuo corpo non ti concederà che il tempo della cura e nessuno spazio di vita. È la sensazione che se nasci in questo paese, ti accolli un debito che è stato costruito, strumentalmente e con il consenso implicito o esplicito di decine di governi ignoranti, inconsapevoli o complici delle strutture finanziarie mondiali al di là dei colori dei governi. È la sensazione che le regole, le leggi, i regolamenti, valgano in virtù della capacità di spesa o di influenza politica delle persone. È la sensazione che i teatrini serali dei soliti personaggi, chiamati nei talk show, siano più governati dai dati degli ascolti che dal confronto di idee necessario a far comprendere cosa fare e come. È la sensazione che i giornalisti siano complici più dell’organizzazione di un intrattenimento che della costruzione di una analisi critica per far scegliere le persone. È l’insopportabile gentilezza con la quale personaggi condannati, inquisiti e apertamente incapaci siano costantemente invitati a spiegarci cosa dovremmo fare o dare giudizi su ciò che accade. È la certezza che se hai preso un prestito per garantirti un tetto dove vivere (mettendo in subbuglio spesso intere famiglie e obbligando la tua vita a perenni sacrifici) tu devi restituire fino all’ultimo euro, compresi interessi al limite e oltre l’usura (soprattutto se calcolati in percentuale agli interessi riconosciuti), mentre ai grandi gruppi capitalistici mondiali sono concessi privilegi finanziari e fiscali che non si osa neanche raccontare in giro. Sono sensazioni che potrebbero essere descritte in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Quasi il pane comune di ogni scambio, di ogni relazione informale o meno che sia. Una descrizione che traccia una linea che separa chi ha (ancora) garanzie (e ha una paura devastante di perderle) da chi ha ormai solo la disillusione della esclusione che induce un rancore verso chi ha e odio verso i (potenziali) concorrenti nella illusoria rincorsa di una scorciatoia per mettersi al riparo. Solitudine, esclusione, rancore, che questo continuo esproprio ci consegna, ci rendono muti e impotenti di fronte a processi, anche quando pensiamo di gridare fortissimo in piccoli recinti informatici che un algoritmo ha delimitato per costringerci a parlare solo con chi ci risponde o legge, pensando di parlare al mondo. Gridare o indignarsi contro il nostro vicino (di casa, di condominio, di via o quartiere, di città o di regione, di nazione o continente) ci illude di trovare la causa, rimossa la quale, tutto diverrebbe (o tornerebbe) perfetto, semplice, giusto. Lottare contro quelli che utilizzano queste tesi per costruire ed estendere il loro consenso sociale e politico, basandoci su richiami etici o religiosi (siamo tutti persone), risulta vano e incapace di risultati. Le stesse entità religiose, e il Papa in primis, sono contestate implicitamente o esplicitamente, su questo schema, dagli stessi credenti e “fedeli”. La semplice denuncia delle storture delle logiche dell’economia finanziaria appaiono cose astratte e incapaci di affrontare la condizione reale delle persone qui ed ora. Né serve denunciare le forme strumentalmente “manipolatorie” nella costruzione del con/senso. Una volta costruito il “senso” quotidiano delle cose, il con-senso diviene un processo quasi automatico. Allora tutto è perduto? Dobbiamo rassegnarci allo spirito dei tempi? Ci rimane solo di essere spettatori “critici” o di lottare per il diritto alla poltrona (pardon il diritto di tribuna) affidato a qualche personaggio che – con logiche democristiane di tessere, vertici segreti e dichiarazioni roboanti – si arroga il diritto di parlare a nome della sinistra che fu? Io penso di no, ma, per riprendere un percorso, serve umiltà (che non significa convocare una assemblea dove è concesso di ascoltare gli autodefiniti dirigenti o far fare carrellate di interventi “dal basso” che al massimo descrivono il dolore o il disprezzo per la solitudine, l’esclusione e il rancore che provano anche rispetto ai presupposti dirigenti), serve intelligenza (che non significa saper fare bei discorsi, talvolta anche con i congiuntivi giusti) e creatività (che non significa organizzate serate trendy per pensare di apparire in sintonia con il nuovo), serve capacità di comunicare (che non significa utilizzare strumenti tecnologici come surrogati dell’incapacità di ascolto e comprensione). Serve una analisi del nuovo capitalismo della conoscenza (quello digitale che stiamo vivendo, quello della robotizzazione, dell’intelligenza artificiale, che è un errore sminuire in quello dei lavoretti delle piattaforme, ma che è quello della genetica, delle nanotecnologie, dei big data, della Blockchain, ecc..). Capire il capitalismo della conoscenza non significa avere la capacità di regolamentare e contrattualizzare i riders. Questo, al massimo, è tentare di portare una piccola frontiera di lavoro a cottimo all’interno di forme di organizzazione dell’estrazione del valore dell’era industriale precedente. Giusto, ma totalmente insufficiente alla bisogna, come la rivendicazione tardiva della “contrattazione dell’Algoritmo”, cosa che avremmo potuto o dovuto fare venti anni fa e che oggi lascerebbe di nuovo al capitale la tolda del comando. Affrontare il capitalismo della conoscenza significa tentare di strappare l’egemonia della direzione del processo in atto alle logiche di riproduzione del capitale, saper immaginare il futuro umano attraverso le potenzialità organizzative e produttive “oltre-capitalistiche” che le tecnologie rendono disponibili e già praticate da milioni di persone (come dimostrano le esperienze dell’open-source, le economie sociali della condivisione, del dono) un orizzonte che la sinistra di oggi deve poter organizzare e mettere in campo, prima che la logica finanziaria distrugga il pianeta; serve la capacità di immaginare come le conquiste e le conoscenze raggiunte dall’umano possano donare una esistenza più libera e giusta a tutti, in ogni paese e per ogni individuo nato su questo pianeta, perché non c’è possibilità di una vita serena e dignitosa dentro territori (nazionali o meno) circondati da povertà, diseguaglianze, ingiustizie, fame e disperazione; serve un modello di vita che renda compatibile la nostra esistenza con tutti gli esseri viventi e cicli naturali; serve una capacità di organizzare le forze nuove che i processi stanno producendo indirizzandole al di là della logica capitalistico-finanziaria, ma senza abbandonare le lotte in difesa di quelle che subiscono ancora gli effetti della crisi del vecchio modo di produrre capitalistico. Serve capire come si stia trasformando il concetto di lavoro e come oggi sia possibile iniziare a produrre organizzazioni “di liberi produttori associati”. Serve uno scarto. Serve la produzione di “senso” della vita per iniziare a ri-costruire il consenso politico per un cambiamento. Quello che manca nello scontro politico in atto in questo momento nel pianeta è proprio la soggettività del mondo del lavoro. Ma inteso non solo nell’accezione industriale e neanche nelle sue classiche suddivisioni tra quello operaio, impiegatizio, dirigenziale e così via. Il digitale ridescrive tutto e indica nuove prospettive. La rivoluzione produttiva immateriale fa irrompere sulla scena nuove forme di produzione intorno al “Lavoro Implicito” che indicano anche nuove e più avanzate potenzialità ri-organizzatrici della produzione, delle relazioni e del soddisfacimento dei bisogni individuali e sociali. Ma serve una ripresa di capacità politica e rivendicativa. Al dibattito politico in Europa, in particolare, manca il soggetto che negli ultimi due secoli è stato il protagonista, con le sue rivendicazioni generali e “sovranazionali”: il movimento dei lavoratori, quello che aveva rivendicazioni generali e globali, rivendicazioni di civiltà. Oggi serve una mobilitazione nuova del mondo del lavoro, vecchio e nuovo, nel rivendicare una circolazione delle merci che garantisca il rispetto del modello di welfare che i lavoratori europei si sono conquistati in un secolo di lotte. Una rivendicazione che rilanci l’idea che i salari debbano essere uguali nel territorio europeo come le tutele sociali. Senza una “riunificazione” di orizzonti, le divisioni nazionali condurranno tutti alla sconfitta e alla vittoria dei vari nazionalismi. Il movimento dei lavoratori ha vissuto già queste miopie nazionali nel ‘900 arrivando anche a votare i crediti di guerra che aprirono alle guerre nazionalistiche che divennero mondiali. Non c’è soluzione, per chi sta in basso, all’interno di confini nazionali. Non c’è un “destino italico” come non esiste un “destino tedesco” o uno “francese” per un lavoratore. E non è vero che se le élite nazionali vincono, vince tutto il paese, mentre è vero il contrario: se vince il mondo del lavoro europeo vince una idea di civiltà forse a livello mondiale.

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