Problema Profughi e migranti

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di Guido Viale

Oggi per noi il problema dei profughi e dei migranti è centrale e non può essere eluso per tre ragioni fondamentali:

  1. Cambia le caratteristiche del terreno dello scontro (l’Europa) perché divide, disgrega e scompagina l’UE. Ogni governo cerca di scaricare sugli altri l’”onere” dell’accoglienza; nessuno ha o cerca un approccio comune

  2. Mette il vento in poppa alle destre razziste e fasciste, che hanno soluzioni pronte (impraticabili, ma di grande effetto) “costringendo” le maggioranze di governo a inseguirle, scomparendo o perdendo peso

  3. Crea sconcerto anche in tutti noi: non siamo per respingere, ma non sappiamo né come accogliere né come affrontare il “dopo”.

La “produzione” di profughi è comunque un processo destinato a crescere, a causa dei cambiamenti climatici, del degrado ambientale, politico e sociale dei paesi di provenienza, delle guerre e dei conflitti armati provocati da questi processi. Inoltre, non mette di fronte solo Africa ed Europa: profughi e migranti arrivano numerosi anche dall’estremo e dal medio oriente e in Africa gli sconquassi ambientali e sociali maggiori li sta producendo la Cina, che non ne subisce invece le conseguenze in termini di afflussi.

E’ evidente la dimensione demografica del problema: l’Europa perde abitanti (circa 3 milioni all’anno; 100 milioni al 2050); l’Africa li raddoppia nel giro di trent’anni (da un miliardo e 300 milioni a due miliardi e mezzo al 2050. Ma bisogna tener conto di queste considerazioni:

  1. Non tutti coloro che fuggono dalle loro terre puntano all’Europa; per lo più si insediano in zone e città vicine, in attesa di tempi migliori.

  2. A parte la tratta (quantitativamente mostruosa ma percentualmente insignificante) e i sempre più difficili ricongiungimenti familiari, la maggioranza dei migranti (ma anche dei profughi) è composta da maschi, giovani, relativamente istruiti e relativamente benestanti: anche fuggire costa, richiede risorse e intraprendenza.

  3. Ma per i più, sia in fuga dalle guerre, dalle dittature o dalla miseria, l’emigrazione non è più “per sempre”. Si fugge per guadagnare e integrare il reddito della famiglia o della comunità abbandonata, contando o sperando di tornare. Soprattutto, grazie a internet e, se si è liberi di viaggiare, ai voli low cost, si mantengono solidi contatti con le comunità di origine.

  4. Lo sviluppo, quando c’è, e così come viene praticato, produce emigrazione più che arrestarla perché distrugge posti di lavoro (tradizionali) più di quelli (“moderni”) che crea; e anche perché mette in grado un certo numero di persone di affrontare i costi e i rischi dell’emigrazione. Ma quale “sviluppo”?

  5. Anche l’irreversibilità dell’emigrazione – dalla campagna alla città e dal paese di origine ai paesi di approdo – è legata agli attuali meccanismi dello “sviluppo” e non può essere considerata un’invariante.

Anche vista dall’Europa, l’immigrazione deve essere vista in una scala storica:

  1. Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa è stata ricostruita e l’UE ha raggiunto il rango di potenza mondiale grazie al lavoro dei migranti: 20 milioni nei primi 10 anni, (10 di profughi dall’Est e 10 dai paesi del mediterraneo sia sponda sud-est – Magreb e Turchia – che sponda nord – Grecia, Jugoslavia, Italia, spagna e Portogallo) e poi da un milione a 1,5 all’anno fino alla crisi del 2008. Senza di essi l’Europa è destinata a una rapida decadenza.

  2. Non solo economica (chi pagherà pensioni e servizi sociali; ma anche chi produrrà) ma anche sociale: un continente di vecchi, senza giovani e senza i loro figli, è invivibile (e ne abbiamo un esempio nei paesi e nei territori abbandonati).

  3. Forse tra qualche anno i Governi europei andranno a cercare i figli e i fratelli dei profughi che hanno fatto annegare nel mediterraneo o marcire nelle isole dell’Egeo per colmare i vuoti del tessuto sociale e produttivo dei rispettivi paesi.

  4. Ci sono in Europa 40 milioni di migranti di prima, seconda e terza generazione che si riconoscono più nella nazionalità o nella religione di origine che nella cittadinanza acquisita o ricercata. Di questi circa 20 milioni sono di religione musulmana. Che cosa succederà all’interno dei suoi confini se l’Europa dichiara di fatto guerra all’Islam e ai suoi vecchi o nuovi adepti in nome del contenimento dell’immigrazione e della lotta al terrorismo? E’ possibile ipotizzare sistemi di controllo di una moltitudine che sta per essere un decimo della popolazione continentale senza un sistema militarizzato di apartheid?

Che fare? La risposta dell’establishment europeo, sia di destra che di centro o di “sinistra”, sia di governo che di opposizione – con poche eccezioni, che però non prospettano soluzioni alternative – è, a parte i toni (che pure sono importanti), sostanzialmente la stessa: respingere; elevare barriere sia

  1. Fisiche: muri, reticolati, guardie.

  2. Normative (leggi, regolamenti e codici di condotta).

  3. Burocratiche, procedure di ammissione.

  4. Diplomatiche con l’accordo UE-Turchia e quello Italia-Libia

  5. Militari (Frontex e le forze armate a sua disposizione)

  6. Ma oggi il cuore della guerra ai migranti è l’attacco e la criminalizzazione della solidarietà: navi delle Ong e sostegno ai confini di terra. Per due motivi: sono il contatto tra popolazione locale e persone in transito; e sono testimoni scomodi delle malefatte governative. Senza di loro i Governi avrebbero molto di più “mani libere”.

I “flussi” comunque continueranno fino a che le cause che li provocano non verranno meno (nella migliore delle ipotesi, alcuni decenni), addensandosi ai confini dell’Europa. L’UE pensa solo a come respingerli: capofila la Germania con l’accordo UE-Turchia e l’l’Italia con l’accordo con la Libia e la spedizione militare in Niger (Gori: “Noi (PD) vogliamo difendere i confini dell’Europa in Africa”).

Gli snipers di Israele che fanno il tiro al bersaglio sui palestinesi inermi che si avvicinano alle barriere sono una rappresentazione plastica del futuro della “fortezza Europa”:

  1. Da un lato un regime solido e prospero, con una tecnologia agguerrita, fondato sull’apartheid, sulla guerra permanente, sull’accentramento dei poteri, sulla persecuzione degli oppositori, mascherato da una veste democratica sempre più solo formale
  2. Inoltre, mano a mano che giungono a scadenza le procedure di riconoscimento dell’asilo (unico mezzo, oggi per entrare in Europa) e quale che ne sia l’esito, il numero di persone espulse dal sistema di accoglienza con un foglio di via e l’abbandono in strada – sia per gli ammessi alla protezione internazionale che per coloro, sempre più numerosi, a cui viene ”denegata” – è destinato a crescere e a rendersi più visibile: aumentando insicurezza, criminalità e timori. E’ quello su cui prosperano le fortune degli avversari dell’accoglienza, che peraltro non propongono altro che questo.
  3. Ma anche i rimpatri forzati saranno sempre e solo “simbolici”, cioè esemplari. L’Italia non è in grado di rimpatriare 600.000 irregolari (costerebbe troppo anche per l’Europa), e nemmeno di identificare e “rastrellare” tutti i “clandestini”, né di stringere accordi di rimpatrio con i paesi di origine, che non sono certo in grado di riprendere tutti i loro fuggiaschi. Con i paesi forti (come la Turchia) quegli accordi sono una fonte di ricatto e una minaccia permanente; con quelli deboli, un processo impraticabile.
  4. “Grazie” a queste misure naufràgi e respingimenti (tipo corvette libiche o campo di Moira a Lesbo) saranno sempre più frequenti ma non potranno arrestare i flussi a meno di militarizzare tutto il traffico commerciale in transito nel Mediterraneo.
  5. Ma anche Italia e Grecia rischiano di scivolare in questo ruolo, se già non ci sono dentro. Di fatto la vera frontiera della Fortezza Europa si è spostata alle Alpi e lungo la rotta balcanica.
  6. Dall’altro un popolo in continua crescita di profughi e di emarginati imprigionati nei paesi e nei territori adiacenti, trattati come non Stati (la Libia non è più uno Stato e anche per questo vi si può fare quello che si vuole; Afrin è un esempio di territorio a cui assegnare il ruolo di “deposito” di profughi.

Di fronte a loro il numero delle persone impegnate direttamente o indirettamente nell’accoglienza o nel suo sostegno è ancora molto ampio, sia in Italia che negli altri paesi europei, compresi paesi come l’Ungheria. Ma le loro organizzazioni sono disperse, scollegate e, soprattutto, sempre più in difficoltà per l’incapacità anche solo di prospettare soluzioni di lungo periodo. Per questo è per loro assolutamente necessario avere dei luoghi fisici di riferimento, dove incontrarsi, scambiare esperienze e calore umano, sentirsi comunità, confrontare le rispettive pratiche ma, soprattutto e mettere a punto un pacchetto di rivendicazioni (un programma) che affronti il problema nella sua globalità. Il web queste cose non può farle.

Ma è evidente, data la centralità del problema, che sono proprio le organizzazioni dell’accoglienza e della solidarietà il nucleo intorno a cui ricostituire un fronte di resistenza e di opposizione all’ondata oggi vincente del razzismo, della discriminazione, dell’affermazione di soluzioni autoritarie. Nessun altro problema sociale o politico, a partire da quelli del lavoro, del reddito e dei servizi sociali, può essere affrontato senza mettere al centro il destino di profughi e migranti, che è il destino stesso dell’Europa.

Tra accogliere tutti e respingere tutti ci sono delle soluzioni intermedie? Si possono regolarizzare i flussi? Solo in parte. Comunque la “selezione” delle persone autorizzate a raggiungere l’Europa attraverso corridoi sicuri si può fare solo a monte: nelle ambasciate e nei consolati dell’Italia, dei paesi europei, delle agenzie dell’Onu, dove i profughi riescono a rifugiarsi e i migranti economici a presentare le loro candidature. A condizione che una volta in Europa siano liberi di circolare (abolizione di Dublino 3). Ma molti continueranno comunque ad adire vie irregolari, a loro rischio, il che li trasforma automaticamente in profughi; e questi non li si può respingere né “discriminare”.

I problemi creati dall’arrivo, ma soprattutto dal respingimento, di profughi e migranti non è quello dell’accoglienza, che pure è fondamentale e oggi è gestito sempre peggio, ma è quello del “dopo”: che cosa fare “dei” e soprattutto “con” i migranti che sono tra noi.

E’ un problema con due facce: quella dell’inclusione e quella della rigenerazione politica, sociale e ambientale dei loro paesi di origine. Entrambe sono parte di un programma di rigenerazione dell’Europa. Ma nessuno di questi tre problemi può essere affrontato solo a livello nazionale; il che mette una pietra tombale su ogni prospettiva sovranista: euro, uscita dall’UE, uscita unilaterale dalla Nato; sono tutti campi di confronto e di lotta di respiro europeo e non soluzioni praticabili a livello nazionale; sono tutti temi su cui promuovere la crescita di un movimento alternativo paneuropeista e non improbabili programmi di governo a livello nazionale. Non siamo al governo e non ci andremo presto, né noi né le forze con cui possiamo collegarci. E’ inutile quindi predisporre, anche su questo problema, una lista di “desiderata” per cui mancano le forze di attuazione. Quello che possiamo e dobbiamo fare è delineare un percorso che ci fornisca degli indirizzi teorici e pratici per progredire nel contesto sociale, politico e geopolitico in cui ci troviamo

Guardando al problema dei migranti come paradigma dei problemi dell’Europa, non c’è prospettiva di inclusione (o “interazione”, e non integrazione) sociale – né per profughi e migranti, né per giovani, donne, disoccupati e precari, al di fuori di una prospettiva occupazionale. Certo, possibilmente, non il lavoro attuale, ma un lavoro sicuro, più ridotto nell’orario, più coinvolgente nel suo svolgimento, più utile nelle sue finalità. Occorre soprattutto tener conto del fatto che il lavoro è il modo in cui vengono giustificate le peggiori operazioni e speculazioni da noi e il perseguimento di uno sviluppo fondato su rapina e dittature nei paesi di origine di profughi e migranti. Il lavoro come mezzo di inclusione sociale va valorizzato solo se e per quel che serve; e noi oggi abbiamo di fronte un obiettivo generale e radicale il cui perseguimento richiede molto lavoro (di tutti i tipi e a tutti i “livelli”) e molte competenze, sia in Europa che nei paesi di origine di profughi e migranti

Questo obiettivo è la riconversione ecologica, che riguarda tutti i settori portanti dell’economia (energia, edilizia, agricoltura, alimentazione, mobilità, abbigliamento, assetto del territorio, sanità, istruzione e cultura) e che non può essere perseguita se non nel quadro di una molteplicità di iniziative dal basso, dove e quando se ne presentino le condizioni, sempre tenendo conto, ovviamente, del quadro generale

Le esperienze di inclusione, soprattutto nel campo del lavoro, oggi servono a dimostrare che una diversa pratica di accoglienza è possibile, perché al lavoro segue quasi sempre un livello di accettazione sociale molto più diffuso. Certamente queste esperienze sono “di nicchia” e non sono in grado di cambiare il quadro generale. E per questo vanno accompagnate da un intenso lavoro di definizione delle forme e dei modi della conversione ecologica che prospetti soluzioni locali da rivendicare nel quadro di una prospettiva generale che le renda realistiche: la rivitalizzazione dei borghi e dell’agricoltura montana, la riconversione di una fabbrica, il risanamento di un’area, l’introduzione di impianti di energia rinnovabile, una diversa pratica agricola, ecc. Per metterle a punto occorre il concorso di tutti – o quasi – gli attori sociali e istituzionali di un territorio.

Ma alle buone pratiche esemplari va affiancata l’elaborazione e l’articolazione locale di un piano di riconversione nei settori indicati capace di mobilitare diversi milioni di lavoratori aggiuntivi ogni anno: per intenderci, un piano da almeno 1000 miliardi di euro all’anno: meno di quanto la BCE spende ogni anno per cercare di salvare le banche. C’è un modo per rendere ben accetti profughi e migranti a livello locale che va prospettato fin da ora. Ogni migrante alla ricerca di un impiego potrebbe essere fornito di una “dote: il finanziamento dei progetti che rientrano nel quadro della riconversione nella misura di uno o più assunti tra i cittadini/e europei/e per ogni migrante assunto. Nessun migrante assunto, nessun finanziamento ai progetti di riconversione locale, legando così la rigenerazione del territorio alla premessa di un processo di vera inclusione.

L’unico modo per non farsi spaventare dal problema degli squilibri demografici tra Europa ed Africa (e dalle scemenze razziste tipo “sostituzione etnica” o “Piano Kalergi”), sempre tenendo conto del fatto che l’Europa ha bisogno di almeno 100 milioni di nuovi ingressi nei prossimi 30 anni se non vuole scomparire come entità politica e sociale dalla carta geografica, è quello di lavorare per rendere possibile il ritorno nei loro paesi di origine dei profughi e dei migranti che lo desiderano (che non sono e non saranno tutti, ma nemmeno una ristretta minoranza). Non è una prospettiva utopistica: quanti profughi siriani non tornerebbero subito in Siria a ricostruire il loro paese se solo se ne presentassero le condizioni? Eppure, di tutte le nazionalità, sono forse quelli che in Europa si sono “sistemati” meglio. Oggi, come si è detto, l’emigrazione non è, nelle intenzioni, “per sempre”. In molti puntano al ritorno. Ma soprattutto, grazie al web profughi e migranti mantengono dei rapporti molto stretti con le comunità di origine. Ma a fronte di un’emigrazione prevalentemente maschile, la maggioranza delle donne sono rimaste nei paesi di origine e sono le custodi dei segreti e dei meccanismi che presiedono al funzionamento delle loro comunità e del loro territorio. Per questo sono anche le protagoniste potenziali della loro rigenerazione.

La rigenerazione ambientale e sociale di cui hanno bisogno i paesi di origine dei flussi migratori è la stessa di cui abbisogna l’Europa: la conversione ecologica. Simili sono le tecnologie e l’organizzazione sociale e imprenditoriale per portarla avanti: ovviamente, adattandola alle condizioni sociali del territorio. Per questo la conversione ecologica europea, una volta avviata, potrebbe essere anche una grande scuola di competenze tecniche e gestionali per i migranti che desiderano far ritorno nel loro paese, se e quando se ne presenteranno le condizioni.

Nessun’altra entità o attore sociale può farsi carico del risanamento di quei paesi: non i loro Governi dittatoriali, sorretti dalle armi e dall’appoggio delle Grandi potenze mondiali. Non le multinazionali a cui viene attualmente affidata la prospettiva del loro sviluppo (vedi il Migration compact di Renzi fatto proprio dall’UE). Quello sviluppo è avvelenato e quelle multinazionali sono all’origine della devastazione di quei paesi. Non la cooperazione allo sviluppo che oggi, anche quando non è truffaldina, lavora con progetti di nicchia più per sostenere se stessa e i suoi interlocutori che per raggiungere dei risultati apprezzabili.

Solo un movimento organizzato di profughi e migranti insediati e inseriti in Europa può mettere in campo le conoscenze del proprio territorio, i rapporti con le comunità di origine, le misure necessarie per appianare i conflitti, le competenze tecniche e gestionali acquisite nei paesi di arrivo, le relazioni con comunità e imprese europee necessarie a prospettare dei piani di pacificazione e di rigenerazione dei loro territori, se li aiuteremo e gli permetteremo di farlo.

Oggi questa non può che essere una battaglia soprattutto culturale, anche se ha la sua base ineludibile nella pratica dell’accoglienza, della solidarietà e della loro aggregazione. Ma in quanto tale, può essere la base per un lavoro di elaborazione politica e di costruzione organizzativa che trascenda la spirale in cui si sono impantanate le forze di quella che è stata la sinistra europea.

 

 

 

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