Autorganizzazione versus caporalato digitale

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di Guido Viale

 Riferiscono in molti che con il blocco dei taxi le auto di Uber in circolazione hanno raddoppiato o triplicato le tariffe. È la legge della domanda e dell’offerta. Ma è anche un’anticipazione di che cosa succederà se e quando Uber avrà vinto la sua guerra contro i tassisti. È una guerra che non riguarda solo l’Italia, ma ha dimensioni planetarie, combattuta con alterne vicende tra la multinazionale e i tassisti. Perché? I taxi sono un servizio pubblico non sovvenzionato (a differenza del trasporto di linea), sottoposto a regole precise: tariffe amministrate e gestite dal tassametro, controlli rigidi sui veicoli e gli autisti, obbligo di garantire il sevizio giorno e notte e di coprire tutto il territorio comunale o comprensoriale definito dalla licenza; divieto di offrire il servizio fuori di esso. Uber è una multinazionale che ha pochissimi dipendenti e nessuna vettura; gestisce solo le prenotazioni e la cassa (incassi subito, pagamenti a 7 giorni) e si avvale, sia nella versione black (noleggio con conducente) che in quella pop (servizio erogato da chiunque abbia sottoscritto un accordo con l’azienda) di autisti e vetture reclutate al bisogno. Non prevede licenze, assicurazioni particolari, limiti e obblighi relativi al sevizio; guadagna (miliardi) con una commissione del 20-25% su ogni servizio erogato e trasferisce il rischio d’impresa sul lavoratore, che non è un dipendente, ma un “imprenditore di se stesso”, tenuto a fornire anche il capitale (la vettura, con relativa manutenzione, assicurazione e oneri connessi: guasti e incidenti).

Anche se è stata bloccata in alcuni paesi, tra cui l’Italia, Uber non rinuncerà facilmente alla versione pop del suo servizio: troverà qualche modo diverso di affidamento per attingere al pozzo senza fondo delle persone disoccupate o alla ricerca di un doppio lavoro, purchè “automunite”. Lo scontro planetario tra Uber e i tassisti ha una portata enorme anche su tutte le altre forme del cosiddetto “capitalismo di piattaforma”; i tassisti sono l’unica categoria mobilitata contro la privatizzazione di un servizio pubblico è il caporaalato digitale. Ma ha soprattutto un obiettivo specifico: monopolizzare il trasporto individuale a domanda mettendo fuori mercato i taxi con tariffe concorrenziali grazie a tre fattori: lo sfruttamento di una manodopera superprecaria, la mancanza dei vincoli imposti da una regolamentazione pubblica; i costi evitati della licenza che gravano invece sui taxi. Una volta messi fuori mercato i tassisti, le tariffe potranno aumentare liberamente e gli autisti potranno rifiutare il servizio (essere a disposizione) quando la domanda è scarsa (per esempio di notte) e da e verso le zone dove i clienti son pochi. Per questo la lotta dei tassisti di oggi difende anche gli utenti di domani. Tutto chiaro, allora? No. Il fatto è che anche il servizio di taxi è stato in parte privatizzato, e non solo in Italia, con la compravendita, peraltro regolarmente tassata, delle licenze: un investimento enorme che ogni tassista si è caricato sulle spalle, spesso indebitandosi, e da cui aspetta di rientrare a fine carriera. Per questo liberalizzare le licenze è per loro un esproprio: sono in larga misura lavoratori già licenziati diventati tassisti come ripiego. Ma le licenze sono un investimento che grava pesantemente sulle tariffe, rendendo il servizio pubblico poco concorrenziale e hanno bisogno di qualcuno che le protegga. È stata così regalata alle amministrazioni locali una clientela indissolubile, fidelizzando la corporazione all’assessore di turno. E mentre il PD paga i costi politici del suo impegno a favore della “liberalizzazione” (leggi privatizzazione), la destra – che su liberismo e privatizzazioni non ha posizioni differenti, ma meno scrupoli a giocarsele in sede locale – riesce a egemonizzare, soprattutto, anche se non solo, di fronte a media e opinione pubblica, la rabbia dei tassisti. Ma il meccanismo che lega la categoria a certi assessori, per lo più ignoranti, ha un costo pesante sia per i tassisti sia per l’utenza: l’abdicazione da elaborazione e realizzazione di una strategia multimodale per il trasporto urbano di cui i taxi potrebbero e dovrebbero essere il perno; e la resistenza della categoria nei confronti delle tecnologie e delle modalità di servizio alternative che queste renderebbero possibili. Dalle cose più semplici (il numero unico cittadino) al taxi collettivo (con ripartizione dei costi tra i diversi utenti regolato da un tassametro, in alcuni casi installato, ma mai utilizzato, e che Uber non può adottare); dall’uso di piattaforme analoghe a quelle di Uber ai servizi di feeding alle fermate del trasporto pubblico di massa. Così quello che nella realtà è lo scontro tra un servizio pubblico e la sua privatizzazione, con relativo esproprio dei lavoratori, viene presentato al grande pubblico come uno scontro tra passato e futuro, tra corporativismo e libera concorrenza, tra innovazione tecnologica e paralisi. Come se Uber fosse una semplice tecnologia e non uno strumento di espropriazione e di degrado sia del lavoro che di un bene pubblico…

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