Non una di meno
di Guido Viale
RIFLESSIONI DOPO LA MANIFESTAZIONE “NON UNA DI MENO”
Viviamo da tempo, e sempre di più, in un regime di ricatto continuo, a cui rischiamo di assuefarci. Facciamo alcuni esempi.
L’abolizione dell’art. 18 non rende solo più facili i licenziamenti, ma introduce nelle aziende un clima di ricatto permanente analogo a quello a cui è sottoposto il lavoro precario. Per questo i suoi effetti non vanno misurati tanto sul numero dei licenziamenti senza giusta causa, che pure sono molto aumentati, quanto sui numeri delle morti e degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali che colpiscono lavoratori che non hanno più la forza per sottrarsi alle imposizioni delle gerarchie aziendali.
L’accordo dell’Unione europea con la Turchia perché “trattenga” sul suo territorio i profughi, o provveda lei a respingerli da dove sono venuti, espone tutti i governi europei al ricatto permanente di Erdogan. Ma non è che i governi dell’Unione si possono liberare di questo ricatto accontentandolo su questa o quella misura, come già stanno facendo in modo vergognoso in tema di democrazia, di persecuzione del popolo curdo e di sostegno all’Isis ieri, e ad altre formazioni terroristiche domani. Quel ricatto continuerà a pendere sulle loro teste per sempre, per lo meno fino a quando si continuerà di trattare l’arrivo dei profughi come una calamità e non come una grande opportunità per ricostituire, con il loro contributo, un diverso ordine sociale sia in Europa che in Medio oriente e in Africa.
Il debito che, con il famigerato “divorzio” tra Governi e Banche centrali, tutti o quasi gli Stati hanno contratto per alimentare i deficit dei loro bilanci (e per evitare il fallimento del sistema bancario) ha messo definitivamente nelle mani della finanza internazionale non solo le politiche pubbliche, ma anche la vita e le scelte dei cittadini. Lo abbiamo visto all’opera in Grecia fino alle sue più estreme conseguenze, anche se, come nei due esempi precedenti, proprio il caso della Grecia dimostra che piegarsi – una, due, tre, quattro volte – non libera dal ricatto, che resta anzi una condizione permanente e si approfondisce; lo sperimentiamo anche noi in questi giorni, perché sono proprio i rappresentanti dell’alta finanza a dirci come dobbiamo votare al referendum per evitare uno sfracello. Il che rende evidente come mai prima d’ora che gli “sfracelli” economici non dipendono dalle “leggi oggettive” dei mercati, ma da decisioni politiche; che però non vengono più prese dai governi, ma da poteri tutt’altro che occulti che tengono in pugno con il ricatto sia i governi che, con essi, i rispettivi cittadini.
Se gli anni del dopoguerra, i famosi “trenta gloriosi”, che molto gloriosi poi non sono stati, si erano svolti nel segno della speranza – la decolonizzazione e l’indipendenza del “Terzo mondo”, i “miracoli economici” dell’Occidente, le “magnifiche sorti e progressive” del socialismo reale – gli ultimi trenta sono invece connotati dalla paura: paura di perdere il posto, o di non trovarlo mai; paura di essere invasi da una moltitudine di estranei che ci porta via quel poco che abbiamo; paura di un disastro economico che ci riduca tutti in miseria; paura (che però pochi sembrano avvertire con la dovuta importanza) che il nostro pianeta vada a fuoco. Inutile ripetere con Roosevelt che l’unica cosa di cui avere paura è proprio la paura. Il ricatto si avvale di un’arma contro cui sembra non esserci difesa: il suo nome è TINA, “non c’alternativa”. E infatti l’alternativa non c’è: bisogna costruirla dalle fondamenta. La parabola de L’altra Europa, soffocata dalle organizzazioni che avrebbero dovuto farla crescere, dopo i fallimenti della Coalizione sociale, di Cambiare si può, di Alba, della Federazione delle sinistre, della lista Arcobaleno e quant’altro, fa capire che un’epoca si è chiusa definitivamente e che un’alternativa vera può nascere solo guardando altrove.
Quell’alternativa in realtà già c’è nella testa o nel sentire di milioni di persone: è il reddito garantito, unica strada per sottrarsi al ricatto della precarietà e del licenziamento e trasformare il lavoro in un’attività che ciascuno possa scegliere liberamente; è l’accoglienza e l’inclusione nella nostra vita quotidiana di milioni di profughi per riconquistare insieme a loro e alle loro comunità di origine anche una prospettiva di pace, di democrazia e di risanamento ambientale tanto dei nostri quanto dei loro paesi; è il recupero di un controllo diretto e decentrato sul denaro, quello che serve a far circolare beni e servizi tra le persone, restituendogli il ruolo di primo e più importante dei beni comuni; al fianco della terra, cioè dell’ambiente, e del lavoro, cioè del libero impiego delle facoltà umane, come già aveva evidenziato, quasi un secolo fa, Karl Polanyi. Ma come arrivarci? In realtà la strada da imboccare – non certo il cammino da percorrere – ce l’abbiamo da sempre sotto gli occhi: in questi giorni più evidente che mai. Tanto evidente da non riuscire a vederla, come la lettera rubata di Poe.
Chi da sempre vive sotto ricatto, in forme e misure ben più intense di quelle a cui ci ha sottoposto tutti l’evoluzione più recente del capitalismo, è “l’altra metà del cielo”. E’ un ricatto radicale, che per molte di loro mette in forse la vita e l’integrità fisica – in un crescendo evidenziato dalla diffusione dei femminicidi – ma che per tutte può significare la perdita di pochi o tanti piccoli benefici, ma soprattutto di status: cioè della condizione sociale, relativamente “sicura”, in cui sono state collocate dall’universo maschile o a cui si sono dovute bene o male adattare. Una condizione che non lascia molto spazio alla prefigurazione di quello che le aspetta sottraendosi al ricatto, se non ciò che tutte insieme sapranno o hanno già in parte saputo costruire. E’ una situazione che si riproduce a tutte le latitudini: da noi, nei territori della donna “emancipata” – ma non per questo esente dal dominio di una cultura patriarcale – quanto nei paesi e nelle comunità dove la sottomissione o il vero e proprio possesso delle donne vengono resi evidenti anche con i segni esteriori, come il velo, di una condizione subalterna.
Per l’universo maschile capire questa situazione significa vivere in prima persona la consapevolezza che non c’è possibilità di sottrarci ai ricatti a cui siamo sottoposti senza correre il rischio di una perdita radicale del nostro status, quale che sia, con i tanti o pochi benefici ad esso legati e le piccole quanto crudeli forme di potere, sulle donne o su chi sta peggio di noi, che lo accompagnano. Una perdita che è però condizione irrinunciabile di una trasformazione della società che non può che essere anche una trasformazione nostra e di chi ci vive accanto. Solo così possiamo pensare di compiere un pezzo di strada insieme lungo il cammino che il movimento delle donne sta cercando faticosamente di percorrere; accettando, più o meno serenamente, il fatto che in molti casi ci troviamo e ci ritroveremo nella posizione di loro controparte: non meno pesantemente, se non violentemente, di quanto padroni, finanza e governi, con tutte le loro armi, lo sono nei nostri confronti.