In difesa dell’Uomo Indebitato

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di Guido Viale

All’alba del Ventunesimo secolo è salita alla ribalta del panorama planetario una nuova figura sociale, una nuova versione del proletariato mondiale: l’uomo indebitato, i cui caratteri sono stati disegnati a tutto tondo dal filosofo francese Maurizio Lazzarato. Tutti gli abitanti della Terra sono in qualche modo indebitati; ma per coloro che non hanno risorse adeguate (il 99 o, verosimilmente, il 99,999 per cento della popolazione mondiale) questa condizione è fonte di un progressivo immiserimento. E’ una condizione non nuova, ma il cui peso è andato crescendo dalla metà del secolo scorso ed è esploso negli ultimi decenni, diventando evidente con la crisi dei mutui subprime del 2008. Questo indebitamento universale è il modo in cui il capitale, o più propriamente, la rendita, recuperano il denaro e il potere che avevano dovuto cedere nel corso del secolo scorso con l’aumento dei salari al di sopra dei livelli di sussistenza e con gli istituti del welfare (soprattutto istruzione, sanità, pensioni e indennità di disoccupazione) conquistati in più di cent’anni di lotte operaie e sociali.

Il debito è sempre legato al pagamento di un interesse ed è una forma di estrazione di surplus dalle tasche e dalla vita dell’uomo indebitato che non si sostituisce, ma si aggiunge, alle forme tradizionali dello sfruttamento diretto del lavoro messe in luce da Marx con la teoria del valore lavoro. Per questo il debito, in tutte le sue forme, rientra a pieno titolo nel quadro di quella “economia estrattiva” che si fonda sulla devastazione della natura, del vivente e delle risorse della Terra; ma che certo non risparmia l’essere umano.

Il debito e l’economia che su di esso si regge sono fenomeni universali, perché tutti gli abitanti della Terra, volenti o nolenti, appartengono a uno Stato, più che esserne “sovrani”. E ogni Stato del mondo ha un bilancio che si regge su un debito pubblico il cui onere, cioè gli interessi da pagare, si ripartisce su tutti i suoi cittadini. E’ da loro che vengono estratte le risorse per pagarli: per lo più con le imposte, ma anche con altre forme di contribuzione; destinando cioè al pagamento del debito pubblico, o dei relativi interessi, beni che appartengono a tutti, come l’ambiente e le sue risorse, o beni comuni, frutto di anni o secoli di lavoro, di sviluppo civile, di condivisione di una cultura. Le forme odierne di privatizzazione dei beni comuni, dei servizi pubblici e dei saperi condivisi non sono che la manifestazione attuale del fenomeno storico delle enclosure, cioè della sottrazione alle comunità di ciò su cui si reggevano il loro sostentamento e la loro stessa convivenza nel corso del tempo.

Nel mondo globalizzato di oggi ogni abitante di questa terra, che viva in una nazione o in una città moderne, oppure in un paese economicamente misero o in una foresta, nasce e vive dunque con un fardello sulle spalle: la sua quota del debito pubblico dello Stato a cui appartiene; e non vi si può sottrarre. Per tutta la vita sarà sottoposto a misure decise da chi controlla quel debito e finalizzate in via prioritaria a garantire il rientro degli esborsi sostenuti da coloro che hanno prestato denaro al suo Stato.

Ma chi è, o chi sono, coloro che prestano denaro agli Stati? Sono soggetti, o attori, che rientrano in grande maggioranza in quella categoria generale costituita dalla finanza internazionale: la forma assunta dal capitalismo nell’era della sua globalizzazione. “Finanza”, perché quei poteri sono costituiti innanzitutto dal denaro, o da titoli equivalenti al denaro, che, come vedremo, non sono, anch’essi, nient’altro che debito. “Internazionale”, perché, grazie a internet e alla deregolamentazione, quel capitale non ha più confini da rispettare. Mentre spostare da un paese all’altro impianti, attrezzature e scorte ha un costo economico, e anche sociale, che ha reso per molti anni il capitale industriale relativamente legato ai territori e alle comunità in cui si era insediato e sviluppato, costringendolo a un confronto diretto con i lavoratori da cui ricavava i propri profitti, il capitale finanziario è estremamente mobile: viaggia quasi alla velocità della luce lungo le autostrade elettroniche; si muove con transazioni ad alta frequenza di millesimi di secondo; si posa, ma sempre e solo temporaneamente, nei paesi dove può realizzare il massimo profitto; e solo per il tempo in cui permangono le condizioni che lo rendono possibile.

Ma da dove viene il denaro che il sistema finanziario presta agli Stati? Da nessuna parte. In gran parte lo crea esso stesso ex novo: è quel denaro che in linguaggio tecnico si chiama moneta endogena (cioè creata all’interno del sistema bancario), contrapposta a moneta esogena, cioè creata dagli Stati o dalle loro Banche centrali. Per gran parte della storia la creazione di nuova moneta è stata prerogativa degli Stati sovrani e delle loro zecche. Ma da quando, agli albori del rinascimento, i mercanti lucchesi e fiorentini hanno introdotto le lettere di credito e poi le cambiali, questi strumenti cartacei, che sono dei “pagherò” (equivalgono cioè a un debito), si sono affiancati alle monete coniate dagli Stati. Oggi il denaro che circola sotto forma di monete (coins) e di biglietti di banca (che sono anch’essi dei “pagherò” garanti dagli Stati) è solo un’infima parte del denaro emesso dalle Banche Centrali sotto forma di apertura di conti correnti a favore delle banche ordinarie; e questo denaro (o moneta esogena: ciò che in linguaggio giornalistico viene detto “stampare moneta”; in realtà non si stampa proprio niente) è a sua volta solo un’infima parte del valore dei titoli, sostanzialmente equivalenti ad altro denaro, creati dal sistema finanziario sotto forma di crediti e debiti. Quando un cliente ritenuto “solvibile” chiede un prestito a una banca, questa apre a suo favore un conto corrente del valore concordato. Quel denaro, gravato da un interesse passivo, resta nella banca fino a che non viene speso, passando così sul conto di qualcun altro. Ma in questo modo ritorna comunque all’insieme del sistema bancario: non rientra necessariamente nella stessa banca, ma all’insieme dei prestiti accordati (che nel bilancio di una banca vengono computati come attivi) corrispondono altrettanti depositi raccolti (che in quegli stessi bilanci vengono registrati come passivi, cioè debiti verso i depositanti). Sono dunque i prestiti che producono i depositi, e non viceversa: le banche non prestano perché hanno del denaro in deposito; lo hanno perché hanno fatto dei prestiti. Naturalmente il bilancio di una banca si regge se il denaro prestato le viene restituito con gli interessi alle scadenze previste; il che può non succedere. Per questo ci sono dei limiti alla concessione di nuovi prestiti, che sono dati sia dal capitale della banca, di cui gli attivi sono un multiplo che non dovrebbe superare un coefficiente dato, sia dall’obbligo di mantenere una quota di depositi più o meno liquidi (riserva) per far fronte a eventuali perdite o al ritiro imprevisto di qualche deposito. Tra le banche esiste però un continuo scambio di prestiti per permettere a quelle che hanno temporaneamente bisogno di liquidità di farvi fronte con denaro preso a prestito da altre banche che al momento ne hanno troppa. E’ questo continuo interscambio di prestiti tra gli istituti di credito che fa del mondo bancario un sistema: se si arrestano i prestiti interbancari per mancanza di fiducia reciproca il sistema si blocca, e con esso tutta l’economia perché il denaro, quello usato nei rapporti tra le imprese, non circola più.

Per una banca anche l’acquisto di un titolo di Stato è un prestito (in alcuni casi obbligato): e anche il denaro investito nel titolo di Stato ritornerà al sistema bancario attraverso i diversi canali della spesa pubblica. Ma perché uno Stato si indebita con il sistema finanziario? Per coprire il deficit del suo bilancio, cioè la differenza tra la spesa pubblica e le entrate fiscali di un anno. Un tempo, prima del pieno affermarsi del neoliberismo, i deficit dei bilanci statali venivano coperti, almeno in parte, con moneta esogena, cioè denaro creato dalla Banca centrale, senza prenderlo a prestito dal resto del sistema finanziario. Ma il cosiddetto “divorzio” tra Governo e Banca d’Italia (1982) ha reso impraticabile questo meccanismo, più o meno nello stesso periodo in cui esso veniva sospeso in diversi altri paesi. E’ questa la svolta (delle cui conseguenze il pubblico non è mai stato adeguatamente edotto né prima né dopo) con cui il neoliberismo si è imposto alle politiche economiche: da allora gli Stati sono costretti a finanziare i loro deficit indebitandosi con il sistema finanziario; e mettendosi di fatto nelle sue mani. Da allora il debito pubblico dell’Italia è schizzato verso l’alto per far fronte ogni anno, con nuovo debito, al pagamento di interessi maturati nel frattempo e che sono andati accumulandosi. Da allora è diventato imperativo, in Italia come altrove, privatizzare imprese, enti pubblici e beni comuni con la falsa motivazione di ridurre il debito con quanto ricavato dalla loro vendita. Poi, con la creazione dell’euro, l’indipendenza della Banca Centrale Europea (BCE) da qualsiasi forma di controllo politico è diventato un dogma. D’altronde non esiste un Governo europeo a cui la BCE debba rispondere.

Ma il sistema finanziario non è fatto solo di banche: ci sono anche le assicurazioni, che raccolgono risorse (i premi) per far fronte a imprevisti di qualsiasi genere (incidenti, malattie, disastri, ecc.), o per garantire ai sottoscrittori un reddito al momento del loro ritiro dal lavoro: la cosiddetta “seconda gamba” del sistema pensionistico italiano. In molti paesi questa è praticamente l’unica forma di pensionamento esistente. Poi ci sono i fondi risparmio e i fondi speculativi. I primi sono alla ricerca di rendimenti sicuri, anche se modesti; i secondi sono ad elevato rischio, ma danno rendimenti alti o altissimi (sia sotto forma di interessi che, soprattutto, attraverso l’aumento del valore dell’investimento). E ci sono, ovviamente, molte forme intermedie. Questi fondi sono comunque tutti debiti contratti nei confronti dei sottoscrittori da istituzioni che, per garantire i rendimenti promessi, devono a loro volta investire il denaro raccolto: in titoli di Stato o in obbligazioni di imprese private (che sono debiti dello Stato o dell’impresa) se cercano impieghi relativamente sicuri; oppure, se perseguono alti guadagni, soprattutto in azioni: che ufficialmente sono titoli di proprietà, ma che vengono trattati, cioè comprati e venduti, come fossero anch’essi un credito verso l’impresa che le ha emesse (che, infatti, nel suo bilancio le registra alla voce passivo): salvo il fatto che danno diritto a concorrere alla definizione dei suoi piani. La massa di crediti accumulata negli anni da queste istituzioni, sempre alla ricerca dei rendimenti migliori, è comunque tale da condizionare tutta la vita politica degli Stati e tutti i piani produttivi delle imprese: che infatti vengono comprate e vendute, e spesso rivendute – con i loro dipendenti – dopo essere state fatte a pezzi, o dopo averne ridimensionato l’occupazione, per ricavarne guadagni maggiori, come se fossero una qualsiasi altra merce.

Ma l’intreccio tra i diversi soggetti del sistema finanziario – banche, assicurazioni e fondi – è molto stretto. Le grandi banche che operano sui mercati internazionali sono in realtà conglomerati di centinaia e, in molti casi, di migliaia di società finanziarie diverse, tra cui i spiccano cosiddetti veicoli finanziari: società che permettono alla banca che le ha create o acquisite di sottrarsi a qualsiasi controllo, trasferendo su di loro – e sottraendoli così ai vincoli che regolano l’attività bancaria – gran parte delle operazioni più rischiose. Questi operazioni sono in gran parte costituite da “derivati”: cioè da titoli di debito “costruiti” su altri titoli di debito (azioni, obbligazioni, titoli di Stato o valute) di cui sono per lo più un multiplo, scommettendo su un aumento o su una riduzione del loro valore; oppure sono costruiti a partire dal prezzo presunto di merci (petrolio o altre materie prime, comprese le derrate alimentari) di cui al momento non si dispone: contando di potersele procurare a un prezzo inferiore a quello pattuito il giorno in cui le si dovrà consegnare al compratore, e guadagnando così la differenza. Ecco da dove viene la quantità sterminata di denaro, cioè di debiti, che circola per il mondo. Una massa di dimensioni tali che in qualsiasi momento può fa saltare, con improvvise e massicce vendite, gli equilibri finanziari anche dello Stato più robusto (e a maggior ragione di quelli più fragili).

Si calcola che, con l’introduzione e la moltiplicazione a ritmi esponenziali dei derivati, circolino nel mondo valori da dieci a quindici volte maggiori di quello del prodotto annuo di tutta l’economia mondiale. Certamente si tratta di “denaro virtuale, che esiste per lo più in forma elettronica (un semplice insieme di bit) registrato sui “libri contabili” (un’altra cosa che in forma di registro cartaceo non esiste più da tempo) di banche o di altri istituti finanziari. Se tutto insieme quel denaro cercasse di convertirsi in beni o servizi prodotti o effettivamente esistenti sulla faccia della Terra, comprandoli, non ne troverebbe a sufficienza per soddisfare nemmeno un decimo del suo potere di acquisto. Ma se una piccola parte di quel valore si distacca – come di fatto succede – dalla sfera della finanza virtuale per convertirsi, non in “denaro sonante” (un’espressione che indica anch’essa qualcosa che non esiste quasi più da tempo, se non nelle monete che tintinnano nel nostro borsellino), ma in conti correnti bancari, ecco che gli si spalanca davanti la possibilità di acquistare quote azionarie, imprese, alberghi, terreni, isole, grattacieli, ville, beni di lusso, vacanze e qualsiasi altra cosa.

Anche i debiti della finanza, il denaro creato in questo modo, gravano sull’uomo indebitato. Se alla resa dei conti una banca o uno dei tanti suoi veicoli finanziari non riescono più a far fronte ai loro impegni – cioè a saldare i loro debiti con altri debiti, perché nessuno gli fa più credito a sufficienza – tutto il sistema rischia di saltare, bloccando l’intera economia e “costringendo” così gli Stati a intervenire per ripianare quei debiti altrimenti insolvibili con “denaro fresco”. Naturalmente per farlo, cioè per procurarsi il denaro necessario, gli Stati si indebitano (a tassi di interesse tanto più elevati quanto maggiore è il rischio di una loro insolvenza); e poi caricano quel debito sulle spalle del contribuente, cioè di tutti i cittadini. E’ quello che è successo con la crisi del 2008 che si è trascinata peraltro fino a ora: un gigantesco trasferimento di debiti dalle banche ai contribuenti. E un trasferimento altrettanto grande di reddito e di ricchezza in senso inverso: dai contribuenti alle banche.

Poi vengono i debiti delle imprese produttive: anche queste, per investire, o anche solo per pagare le forniture, in attesa degli incassi delle vendite, si devono indebitare con le banche. Ma se poi non riescono a saldare i propri debiti, falliscono. E prima di fallire cercheranno – come di fatto fanno – di spremere dai propri dipendenti tutto quello che possono: con aumenti dei ritmi di lavoro, riduzione delle misure di sicurezza, blocco o contrazione dei salari, licenziamenti, delocalizzazioni, ecc. Per di più, sostenendo che se l’impresa va male è colpa dei suoi dipendenti, che non fanno abbastanza per reggere o battere la concorrenza. Per cui tutti, per non mettere a rischio il loro posto di lavoro, dovrebbero adoperarsi per fare di più, meglio, e a meno, di coloro che lavorano per le imprese della concorrenza: una guerra fratricida tra lavoratori…

Infine vengono i debiti che ognuno contrae direttamente per proprio conto: gli acquisti a rate, i mutui per la casa, i prestiti d’onore (quelli contratti dagli studenti per pagarsi l’Università, che poi dovranno restituire per tutto il corso della loro vita lavorativa); ma anche debiti contratti per far fronte a delle spese impreviste, o perché la paga non basta mai (in Italia, soprattutto nel mezzogiorno, è molto diffusa la “cessione del quinto”). Inoltre c’è anche l’utilizzo spregiudicato delle carte di credito: in Italia è ancora poco praticato; ma in molti paesi è ormai diffusissimo fin dagli anni dell’adolescenza; e non ce ne si libera più. Alcuni di questi debiti, come i mutui, possono trasformarsi a loro volta in fonte di nuovi debiti: quando il valore della casa acquistata aumenta nel tempo, si può usare quella differenza di prezzo, anche prima di aver saldato il primo mutuo, come “garanzia” per contrarre un altro debito. E’ in gran parte quello che è successo negli Stati Uniti con i cosiddetti mutui subprime: mutui che i debitori non avrebbero mai potuto ripagare, perché i loro redditi non glielo avrebbero mai potuto permettere; ma che molte banche e altri istituti finanziari avevano comunque concesso a dei clienti insolvibili contando su quel meccanismo. Poi, però quei mutui (cioè quei debiti dei mutuatari) molte banche li hanno “venduti” ad altri istituti finanziari, spesso controllati direttamente da loro, liberandosi del rischio assunto, trasferito in questo modo su altri operatori, e usando il ricavato per ricominciare da capo a concedere mutui. Gli acquirenti di quei mutui, a loro volta, li “impacchettavano” (ma lo fanno tuttora) insieme a migliaia di altri mutui e di altri crediti, in titoli compositi – i cosiddetti CDO (collateralized debt obligation) – tanto complessi che è impossibile capire veramente che cosa c’è dentro. Per poi rivenderli a loro volta. E’ questo un meccanismo centrale nell’attuale assetto dei mercati finanziari: secondo i suoi apologeti, garantisce una distribuzione su tutto il sistema bancario del rischio insito in ogni debito, rendendolo sostenibile perché riduce l’eventualità del fallimento di un singolo operatore. Ma si è rivelato invece una soluzione vincente per nascondere il più a lungo possibile – fino al momento del crack – quella che è una vera e propria truffa; che mai avrebbe potuto venir perpetrata senza la complicità di quelle istituzioni che sono le società di rating. Le quali assicuravano i compratori che quei titoli erano assolutamente “garantiti” (tripla A).

Ma che cosa facevano i cittadini americani indebitati con tutto quel denaro ottenuto in prestito e che mai avrebbero potuto restituire? La bella vita? No. Sostanzialmente pagavano tre cose che il welfare State dovrebbe garantire a tutti a carico della fiscalità generale (cioè delle tasse pagate da tutti i contribuenti, secondo le loro possibilità). Tre cose che negli Stati Uniti sono affidate invece alle assicurazioni private e che loro, i cittadini indebitati, non avrebbero mai potuto ottenere con i loro soli redditi: istruzione (scuola), salute (assistenza sanitaria) e vecchiaia (pensione). E’ sostanzialmente il sistema di privatizzazione degli istituti del welfare State che si sta cercando di introdurre e di imporre anche in Italia e in tutta l’Europa.

In questo modo il cerchio si chiude. L’uomo indebitato diventa creditore di se stesso: paga i premi per garantirsi i servizi essenziali alle assicurazioni o a un fondo di risparmio e questi, attraverso una lunga catena di transazioni, usano quei fondi per comprare titoli di quel debito pubblico che grava sulle sue spalle. Ma a beneficiare di questo circolo vizioso non è lui – l’uomo indebitato – ma sono i decisori e i gestori delle istituzioni finanziarie che manovrano a proprio vantaggio questa danza dei debiti. Il risultato è la diseguaglianza sempre più spinta che caratterizza la società da quando il capitale finanziario ne ha assunto il comando nelle sue mani.

Per tutte queste ragioni il debito, nelle sue varie forme, è diventato uno strumento centrale di controllo su tutta la società e su ogni aspetto della vita di ciascuno di noi, aprendo una divaricazione sempre più ampia tra chi lo governa e chi ne è governato. Una contraddizione che si aggiunge, senza sopprimerla, a quella tradizionale tra lavoro e capitale nella società e all’interno di ogni singola impresa, che è stato ed è tuttora il motore storico della lotta di classe.

Per venire a capo delle diseguaglianze crescenti di reddito, di benessere, di sicurezza, ma soprattutto di potere sulla vita di tutti che caratterizza le società odierna, la lotta tra lavoro e capitale (tra operai e padroni) non basta più. Perché il capitale finanziario è riuscito a frantumare, disperdere e dissolvere su tutto il pianeta, riprendendo un potere quasi assoluto sul funzionamento della convivenza sociale, il fronte di lotta che nel secolo scorso lo aveva costretto a venire a patti con il movimento operaio e con le sue istituzioni; e ad accettare di corrispondere (certo, non a tutti) salari relativamente alti, sicurezza del lavoro e istituti del welfare (istruzione, sanità e pensioni) pagati dallo Stato.

Le contrapposizioni tra ricchi e poveri e le lotte sociali si stanno così spostando dall’impresa al territorio, dalla fabbrica alla comunità; la posta in gioco non riguarda solo le condizioni di lavoro e le retribuzioni: coinvolge in modo radicale la gestione dei servizi pubblici e dei beni comuni (a partire dalla destinazione e dalla gestione dei suoli): cioè le condizioni basilari della vita associata, che dipendono sempre più dalla consistenza e dagli impieghi della spesa pubblica. Questo conflitto è innanzitutto una lotta contro la privatizzazione di tutto che il capitale finanziario persegue e pretende, a saldo dei suoi crediti (cioè del debito dell’uomo indebitato); ma è anche e soprattutto la rivendicazione di una diversa gestione di quei beni e di quei servizi. Una gestione che li sottragga, attraverso la partecipazione dei diretti interessati, sia alla loro privatizzazione, sia al controllo esclusivo della mano pubblica; perché in questo controllo si riproducono tutte le caratteristiche negative della proprietà privata, a partire dalla possibilità di alienare il bene o il servizio in questione a discrezione di chi lo gestisce.

Qui le nuove forme di conflitto sociale incrociano frontalmente il problema del debito – soprattutto del debito pubblico nelle sue diverse forme – e quello delle regole con cui viene gestito: che si riducono sostanzialmente a una: la privatizzazione di ogni bene e di ogni servizio per fare fronte agli oneri crescenti – e mai estinguibili – dell’indebitamento: con il trasferimento, passo dopo passo, del governo del territorio, delle comunità e della convivenza dalle autorità pubbliche dei governi locali e nazionali – che dovrebbero gestirlo democraticamente, ma che non lo fanno più da tempo, se mai lo hanno fatto in passato – al potere dispotico dell’alta finanza. Che ha una sola regola: il rendimento del capitale investito, cioè il profitto.

Condurre una lotta su questo piano, che è una lotta per portare la società ad autogovernarsi, vuol dire lavorare alla neutralizzazione del potere ricattatorio del debito, in tutte le sue forme. Cominciando innanzitutto a sfatare il suo mito fondativo: che cioè il debito (Schuld, in tedesco) sia una colpa (Schuld) che va riscattata; un peccato che va espiato; un beneficio che va restituito. Il debito che governa il mondo contemporaneo non è fatto per essere restituito, ma per continuare a esercitare un potere di ricatto su tutti coloro che gli sono sottoposti: Governi, imprese, comunità, famiglie. Per questo c’è una legittimità di fondo nel cercare di sottrarsi al suo gioco, anche se le forme di questa liberazione – che sono le forme fondamentali del conflitto sociale del ventunesimo secolo – devono ancora essere esplorate e in gran parte trovate.

Certamente la coincidenza pressoché totale tra il debito e le diverse forme in cui circola il denaro nel mondo di oggi fa sì che al centro di questa lotta vada posto il problema della riconquista di un controllo sociale sul denaro; e quindi, sul sistema bancario, che è la forma assunta dal denaro nella nostra epoca. Il denaro, insieme alla terra (che oggi potremmo chiamare più propriamente ambiente) e al lavoro, sono le tre entità che Karl Polanyi collocava tra le cosiddette “merci fittizie”: cioè beni che non possono essere ridotti a merci, pena la perdita dei legami che tengono unita una comunità e garantiscono la convivenza dei suoi membri. Per ricondurre la gestione del denaro sotto il governo della comunità che lo usa un grosso contributo potrebbe venire dall’introduzione di monete locali, o “parallele”, cioè non convertibili nella valuta ufficiale. Ma è un tema che deve ancora essere approfondito.

Comunque sia, l’indizione di un giubileo (che è l’anno della remissione dei debiti) da parte di papa Francesco – decisa in un contesto che lo vede prendere posizione in misura crescente a favore dei diritti della Terra, del vivente e degli oppressi, in aperta contrapposizione con le tendenze che dominano il mondo governato dall’alta finanza – può essere l’occasione di una riflessione generale sul tema di come liberarci dal debito; di come liberare dal suo debito l’uomo indebitato: che è come dire come liberarlo dal giogo della finanza globale. Un argomento centrale nella nostra epoca.

 

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