Nancy Porsia: intervento al Convegno “Pace e Diritti nel Mediterraneo”.
di Nancy Porsia
Il testo che segue non ricalca totalmente l’intervento che la giornalista Nancy Porsia ha tenuto al Convegno “Pace e Diritti nel Mediterraneo”. Nei 20 giorni intercorsi alcune cose importanti nel quadro Libico e internazionale e l’autrice ha ritenuto opportuno aggiornare il proprio elaborato.
Il quadro che ci offre è articolato e complesso e ci consente forse di comprendere meglio quanto sta avvenendo anche in queste ore. Per questo la ringraziamo.
Come abbiamo potuto assistere negli ultimi mesi, l’attenzione mediatico-politica rispetto ai flussi migratori verso l’Europa si è spostata nell’Est del vecchio continente. Questo mette in discussione la nostra retorica sul mediterraneo come confine poroso e fonte di problemi. Il mediterraneo è in realtà una porta, più che un confine, sulla regione di cui facciamo parte. Tuttavia, qualora si voglia parlare di confini il concentramento attuale delle rotte migratorie sul versante dei Balcani aiuta a ricordaci che il contatto con l’altro, con il “non europeo”, non è una prerogativa della sponda Sud dell’Europa. Evidentemente soffriamo di memoria corta e gli arrivi massicci dall’Albania durante la guerra nell’ex Jugoslavia sono già stati dimenticati. All’epoca avevamo paura dei criminali infiltrati tra i rifugiati, oggi abbiamo paura dei terroristi infiltrati tra i rifugiati provenienti da paesi a maggioranza musulmana. Eppure oggi il circo della politica tenta di presentarci questo fenomeno come una minaccia senza precedenti, un’invasione che potrebbe stravolgere le sorti dell’Europa criminalizzando a priori chiunque arrivi nel vecchio continente.
Al di là delle nuove rotte migratorie, il Mediterraneo rimane un crocevia importante e la Libia in particolare è la tappa obbligatoria dei flussi di gente in fuga dai conflitti, dalla fame, dai cambiamenti climatici in Africa e in Medio Oriente. Quest’anno si è registrata una flessione del numero di migranti giunti in Europa attraverso la Libia. A fronte dei 160 mila rifugiati arrivati in Italia attraverso la Libia via mare nel corso del 2014, quest’anno sono stati circa 140 mila i rifugiati sbarcati sulle coste a sud d’Italia.
Per capire le dinamiche del flusso migratorio attraverso la Libia, bisogna dunque comprendere che cosa sta accadendo nel paese stretto nella morsa delle guerra civile. Spesso ci si riferisce alla Libia come ad un Paese senza Governo, in realtà ci sono due Parlamenti, due Governi e due Eserciti, per calcolare solo quelli ufficiali. In realtà in Libia ci sono molteplici forze, potentati, nessuno dei quali ha il pieno controllo del territorio. Tuttavia permane la suddividine piuttosto netta Est versus Ovest.
L’Est è controllato dal Generale Khalifa Haftar, l’uomo dal pugno di ferro che dal maggio del 2014 è ufficialmente impegnato nella guerra contro i fondamentalisti islamici. Haftar, comandante della coalizione armata del Parlamento (House of Reprasentatives, HoR) insediatosi nel settembre del 2014 nella città dell’estremo Est di Tobruq, è il procuratore in terra libica del presidente egiziano Al Sisi, il quale rappresenta il nemico numero uno del network degli islamisti. Mentre ad ovest abbiamo una coalizione di matrice islamista, che però non va associata necessariamente al fondamentalismo o al terrorismo. La natura islamista del Congresso che controlla l’Ovest è assolutamente dichiarata. Nel Congresso di Tripoli (General National Congress, GNC), partecipato da membri del Partito libico della Fratellanza Musulmana “Giustizia e Ricostruzione” e che avrebbe dovuto passare il testimone a HoR, si è reinsediato in virtù di una sentenza della Corte Suprema Nazionale che ha dichiarato illegittime le elezioni legislative del 2014. Secondo Tobruq, la Corte Suprema si sarebbe espressa sotto la minaccia delle milizie di Tripoli e quindi l’HoR è rimasto al potere inaugurando la stagione dei due Parlamenti nel Paese nordafricano.
Quali sono le interazioni tra questi due attori? E’ un muro contro muro, esasperato dalla guerra per procura che in questo momento si gioca in Libia fra potenze straniere. I libici infatti rappresentano solo uno degli stakeholder che sta negoziando la stabilità del paese nordafricano. Emirati Arabi Uniti versus Qatar e Egitto versus Turchia sarebbero i paesi presenti sul fronte libico, che puntano ad una maggiore influenza nello scacchiere regionale. Queste potenze straniere stano cercando di accaparrarsi porzioni di potere in un paese strategico per via della sua prossimità con l’Europa e per le ingenti ricchezze petrolifere. Tobruq rappresenta il “fantoccio” di Egitto e Emirati Arabi Uniti mentre le autorità di base a Tripoli sono sponsorizzate da Turchia e Qatar. L’economia egiziana è al collasso e tutti gli assets petroliferi presenti nell’Est della Libia fanno gola a Il caria. Haftar è il ponte tra Egitto e Libia. Gli Emirati Arabi Uniti invece non sono interessati alle ricchezze petrolifere libiche ma al controllo di una porzione di territorio importante nello scacchiere mediterraneo. Sul versante opposto la Turchia è anche interessata alla Libia come passaggio strategico tra Mediterraneo e africa. Questa guerra per procura vede i libici quasi in un angolo, se consideriamo che i libici hanno vissuto 42 anni di dittatura in cui un solo uomo forte muoveva le fila della politica interna ed estera. I libici infatti stanno vivendo una fase di politicizzazione di massa assolutamente nuova per il paese.
A questo punto è necessario fare una digressione e capire chi ha fatto la rivoluzione in Libia. Una considerazione che sembra oramai datata e fuori luogo ma che è la chiave per capire quanto sta accadendo oggi. Sono in tanti a pensare che la rivoluzione libica sia un prodotto della politica estera degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. In realtà questa visione della real politik apocalittica non fa i conti con l’allora forte volontà di buona parte della popolazione libica di sbarazzarsi del ‘riccio pazzo’ come chiamavano l’ex raìs Muammar Gheddafi. I libici non avevamo fame, non chiedevano pane o casa. Come ben sappiamo il socialismo gheddafiano, la famosa terza via, garantiva a tutti il livello minimo di sussistenza, ma solo il minimo appunto, perché nonostante gli ingenti proventi dell’industria petrolifera i libici soffrivano l’assenza di un buon sistema di istruzione, di un sistema sanitario e di infrastrutture in generale. Per avere la strada asfaltata di fronte casa, bisognava conoscere qualcuno della ristretta cerchia gheddafiana. Comunque Gheddafi garantiva pane sul tavolo e un tetto sulla testa. Ma questo non bastava a soddisfare i libici che invece avevano fame di libertà. Ecco perché è assurdo pensare, come fa l’Unione Europea, di distinguere i migranti economici dai rifugiati. Questa distinzione non esiste laddove la mancanza di pane e quella di libertà sono spesso due facce della stessa medaglia, ossia di Governi che violano massicciamente i diritti. Chiaramente le notizie che giungevano a gennaio del 2011 in Libia da Tunisia, Egitto, Siria attraverso il web hanno acceso la scintilla di una speranza oramai abbandonata. Il regime si poteva combattere.
Ma a quattro anni dalla fine della Rivoluzione i libici si ritrovano ad un punto di stallo. Decine di milizie, ex rivoluzionarie e di nuove, finanziate da Governi stranieri, controllano il territorio. C’è assenza totale di sicurezza e, oggi come ieri, i libici sono costretti ad andare in Tunisia o in Turchia anche per semplici controlli medici o operazioni di routine. In Tunisia, per via di una discriminazione radicata verso i libici, questi vengono puntualmente salassati e dalla polizia corrotta che incontrano per strada e all’interno delle cliniche dove ci sono tariffari ad hoc per libici. La gente ha perso la speranza e la disillusione circa un processo di traduzione verso la cosiddetta democrazia, negli ultimi mesi ha ceduto il passo alla frustrazione.
A Settembre del 2014, le Nazioni Unite si sono offerte come mediatori tra le due fazioni rivali libiche, il Congresso di base a Tripoli e il Parlamento insediatosi nella città dell’estremo Ovest di Tobruq. Il rappresentante speciale delle nazioni Unite in Libia, Bernardine Leon, per oltre un anno ha fatto la spola tra il tavolo che radunava i membri della delegazione da Tripoli e quello dove sedevano i rappresentanti di Tobruq. I libici, seppure scettici, ci hanno creduto non avendo alternativa. Ma oltranzisti di entrambi gli schieramenti non hanno firmato l’accordo per un Governo di Unità Nazionale, accusando Leon di faziosità con il nemico. Strano che entrambi i gruppi muovessero le stesse accuse, perché di fatto l’incarico di Leon si è concluso con uno scandalo. Il rappresentate delle Nazioni Uniti faceva pressioni nei negoziati a favore di Tobruq, per assecondare gli Emirati Arabi Uniti, con cui stava finalizzando per sé un contratto di lavoro milionario in tempi ravvicinati. All’indomani della fine dell’incarico di Leon, il giornale britannico The Guardian ha pubblicato le mail che Leon ha scritto dal suo account di posta personale agli sceicchi emiratini e all’ambasciatore libico negli Emirati, in cui il diplomatico UN spiegava ai suoi interlocutori la strategia che avrebbe utilizzato per garantire l’affermazione delle supremazia di Tobruq su Tripoli. Il Leon’s gate ha quindi destituito di ogni credibilità il ruolo di mediazione delle Nazioni Unite in Libia e questo oramai innescando un processo irreversibile. Quindi il successore tedesco Martin Kobler non ha avuto grandi spazi di manovra.
Infatti ad inizio dicembre i rappresentanti del congresso di Tripoli e quelli del Parlamento di Tobruq si sono incontrati a Tunisi per definire un nuovo accordo, fuori dalla traccia delle Nazioni Unite. Certo i rappresentanti della comunità internazionale erano tutti presenti nell’albergo di Ghammart dove si sono tenuti per due giorni gli incontri tra le due delegazioni. Secondo una fonte della commissione libica incaricata di mediare tra le due controparti, dal Consiglio di Sicurezza della Nazioni Uniti il messaggio è giunto forte e chiaro: o i libici si mettono d’accordo e consegnano alla comunità internazionale un interlocutore con cui definire un piano d’azione contro lo Stato Islamico, o la Libia passa sotto il mandato delle Nazioni Unite, si rispolvera la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1973 e notte tempo parte l’intervento militare della NATO.
A quanto pare l’avanzata dell’ISIS verso i terminal petroliferi sulla costa orientale del paese ha dato lo slancio necessario alle cancellerie straniere per decidere di tornare ad occuparsi di Libia. Infatti l’ISIS sta tentando la propria espansione dalla città di Sirte fino ad Ajdabia, snodo petrolifero al centro del principale hub dei terminal petroliferi del paese membro OPEC e anche crocevia dello smuggling di migranti. Chiaramente l’intervento militare è l’unica soluzione contemplata nella real politik. Il prossimo 13 dicembre si terrà un summit a Roma sulla guerra in Libia. Kobler incontrerà i rappresentanti dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e della NATO. Quali delegazioni presidieranno i lavori nella capitale italiana non è ancora dato sapere. Sicuramente le delegazioni che hanno deciso di rimanere nel tracciato UN. Ma ci sono buone probabilità che per una repentina soluzione, le Nazioni Unite lascino la porta aperta anche a chi ha sfidato la loro autorità proponendo un accordo nazionale non mediato dalla comunità internazionale.
Al netto dei giochi diplomatici, l’elemento su cui tocca puntare l’attenzione sono le vite umane, ossia il costo della politica in termini di vite umane, che si tratti di eritrei, sudanesi, pakistani, somali o libici. Tanti libici stanno morendo, nel corso del 2104 in cui si è registrata una nuova escalation di violenza a partire dalla divisione dei gruppi armati del paese in due coalizioni, operazione “Alba della Libia” al fianco del Congresso di Tripoli e operazione “Dignità” con Tobruq, lo scorso luglio, almeno 1500 libici hanno perso la vita in scontri armati, secondo il sito web Libya Body Count. Invece dall’inizio del 2015 si stimano circa 1200 vittime sui fronti rimasti aperti dove si è registrata una minore intensità di guerra guerreggiata. Se non si inverte questa tendenza di tensione, esasperata anche dal fallimento e dal doppio – giochismo della diplomazia internazionale, a breve ci ritroveremo a parlare di “esodo libico”. Ad oggi infatti si parla di Libia solo come crocevia per migranti, ma quello che è oggi un paese di transito potrebbe a breve trasformarsi in un paese di esodo massiccio. Solo un’analisi della Libia in una prospettiva libica può dare infatti gli strumenti alla comunità internazionale per pensare a una soluzione a lungo termine. Tuttavia la politica ci ha da anni oramai abituata a ragionare inesorabilmente in una logica di emergenze. E quindi tra qualche mese, forse, ci ritroveremo a parlare di emergenza umanitaria in Libia come fosse un dato inaspettato, proprio come il massiccio esodo di rifugiati verso l’Europa a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi. Anche il massiccio flusso dei rifugiati attraverso la Libia non avrebbe dovuto cogliere l’Europa impreparata.
Dunque il flusso migratorio nel contesto libico andrebbe analizzato attraverso tre chiavi di lettura. Innanzitutto la strumentalizzazione politica dei flussi migratori da parte dell’autorità nell’est come nell’ovest; lo sfruttamento economico del volume d’affari che gira intorno allo smuggling; infine l’infiltrazione terroristica. Circa la strumentalizzazione politica, l’Europa ha di fatto prestato il fianco ai movimenti fondamentalisti, quello laico come il blocco guidato da Haftar e quelli che controllano Tripoli. Infatti entrambi i parlamenti, i governi e le coalizioni armate al seguito, in questo momento fanno leva sulla cosiddetta diplomazia di frontiera, strumentalizzando le paure dei paesi europei circa un’immediata invasione di terroristi infiltrati tra i rifugiati. Tuttavia l’attenzione dei media resta sempre puntata sui Governo di Tripoli, per via dei punti di imbarco che si concentrano nell’Ovest del paese. E’ necessario dunque analizzare le rotte dei migranti nel dettaglio per capire che entrambe le autorità rivali sono a vario titoli responsabili.
La Libia ha una costa di circa 2000 km, ma per la morfologia e per i fondali marini, gli unici tratti eleggibili per le partenze dei barconi si concentrano nell’Ovest del Paese. Le acque al largo della costa orientale libica sono troppo profonde e le imbarcazioni di fortuna che in genere vengono utilizzate nel traffico non sarebbero in grado di affrontare la traversata, come mi è stato spiegato da un trafficante professionista, con carte nautiche alla mano. Basta analizzare le rotte del transito dei rifugiati attraverso la Libia: la maggior parte dei 140 mila rifugiati che quest’anno sono passati attraverso la Libia, o dei 160 mila dell’anno scorso, sono entrati dall’est del paese controllato dalle forze del Paramento di Tobruk. Tutte queste persone si sono poi imbarcate verso l’Europa dalla costa occidentale della Libia, sotto il controllo del Congresso di Tripoli, almeno teoricamente. La maggior parte dei rifugiati entrano da Sabha o Kufra, due città nel deserto meridionale del Paese; molti dal confine egiziano e alcuni via aerea dall’Algeria arrivano direttamente a Tripoli. Tuttavia Ajdabia, città costiera nella regione orientale della Cirenaica, rappresenta il primo snodo dello smuggling dei migranti. Ajdadia cade proprio nell’area dei terminal petroliferi, in prossimità di ras Lanuf e Brega, ed è controllata dai federalisti, con Haftar, perché lì è tutta l’area dei terminal petroliferi, Ajdadia è tra Ras Lanouf e Brega, è proprio l’area dei terminal.
Fino ad oltre un anno fa da Ajdabia i trafficanti facevano confluire i migranti su Sirte, ma dalla nascita dell’ISIS nella città natale dell’ex raìs Gheddafi i migranti vengono trasportati verso Bani Walid, nell’entroterra a sud, e successivamente verso la capitale Tripoli, che rappresenta la seconda tappa in Libia. A Tripoli le centinaia di rifugiati che si ammassano nei palazzi – dormitorio nel quartiere meridionale di Abu Sleem o lungo Gorji, arteria ad Est della città, entrano in contatto con i mediatori stranieri, in maggioranza sudanesi, eritrei e palestinesi, i quali li indirizzano nelle varie città della costa occidentale a seconda del budget a disposizione. La costa libica utilizzata per le partenze va tendenzialmente da Zlitan, a 10 km a Ovest di Misurata e 250 km da Tripoli, fino al confine tunisino, ossia Zuwara di cui avrete sentito parlare svariate volte e a cui ci si riferisce come la città dei trafficanti per antonomasia.
Su entrambi i fronti dunque, ad Est come ad Ovest, i trafficanti hanno completa agibilità sul territorio grazie non solo alla corruzione dilagante nel paese, ma anche alla volontà politica di entrambe le fazioni di agitare lo spauracchio dell’invasione di migranti in Europa per strappare accordi di cooperazione con i governi stranieri e quindi riconoscimento politico. Non a caso Haftar da un anno mette in guardia l’Europa circa il pericolo di infiltrazione terroristica tra le fila dei migranti che partono dai territori controllati dai suoi rivali, che il generale non perdere occasione per etichettare indiscriminatamente come islamisti terroristi. Allo stesso modo per Tripoli i migranti rappresentano una mera merce di scambio sul tavolo delle trattative diplomatiche: gruppi armati nella capitale effettuato retate nel cuore della notte nei quartieri abitati dai migranti, all’interno dei casermoni e tutto ciò solo per dare i numeri del loro impegno alla stampa internazionale il giorno successivo, ogni qual volta che l’UE o l’Italia rilasciano dichiarazioni circa lo stato di anarchia in Libia.
Passando lo sfruttamento economico del business, secondo il rapporto del Gobal Initiative Against Trasnational Organize Crime, rilasciato a maggio 2015, il volume d’affari dello smuggling degli esseri umani sarebbe aumentato da 20 milioni di dollari del 2010 a 400 milioni di dollari del 2014. Questo business rappresenta dunque un’opportunità immensa per un paese al collasso economico. Infatti in Libia tutti gli investitori stranieri sono scappati insieme a quelli nazionali. L’export del petrolio è sceso da 1,6 milioni di barili al giorno del post rivoluzione ai 400 mila attuali. Il nuovo elemento che sta portando l’economia reale libica allo stadio terminale è l’inflazione del dinaro libico nel mercato nero, unico accesso per i libici alla valuta estera per via della corruzione all’interno del sistema bancario dove trasferimenti in altre valute sono divenuti il nuovo business. Nel mercato nero il dollaro è arrivato a 3.4, nel tasso di cambio ufficiale è a 1.4. I piccoli e medi uomini d’affari, per la maggior parte impegnati in società di import ed export dove il tasso di cambio è uno degli elementi determinanti del successo del business, non sono nelle condizioni di lavorare. Va sottolineato che la Libia produce petrolio ma importa tutti gli altri prodotti. Questo significa che l’economia locale è strozzata. In tale contesto economico, il business degli esseri umani, così come il traffico di droga, alcool e armi, diventa assolutamente appetibile. Infatti nell’ultimo anno anche individui senza alcuna cognizioni di tecniche di navigazione o dell’abbecedario del mare sono entrati nel business dello smuggling dei migranti. Si tratti di semplici criminali che hanno piccoli capitali da investire per l’acquisto di un gommone e, con armi alla mano, metto in mare migranti mandandoli a morire. Soprattutto sulla costa orientale di Tripoli, a Tajoura, vengono offerti viaggi cosiddetti low-cost: scafisti scelti tra i migranti, gommoni già logori e spesso un solo gallone di benzina a bordo non sufficiente neanche per percorrere 30 miglia navali. Molti migranti, come hanno raccontato i sopravvissuti giunti in Italia, si rifiutano di salire a bordo di queste imbarcazioni fatiscenti, ma i trafficanti improvvisati – armi alla mano – costringono la gente ad imbarcarsi. E’ importante sottolineare come attualmente in Libia il business dello smuggling si sovrapponga sempre più spesso a quello del trafficking. I migranti, che un tempo decidevano liberamente se e a quale trafficante affidarsi per proseguire il viaggio, oggi vengono venduto da un gruppo all’altro di criminali interessato ai riscatti pagati dalle famiglie nei paese d’origine.
Rispetto all’infiltrazione terroristica, come ha detto il direttore del Center for Financial Crime Security Study, Tom Keeting, i gruppi fondamentalisti non operano lo smuggling degli esseri umani ma lo tassano. Quindi gli smugglers non hanno alcuna appartenenza o affiliazione con gruppi terroristici. C’è uno scollamento fra la capitalizzazione di questo business e il trasferimento di terroristi in Europa, agitato puntualmente come uno spauracchio dalle cancellerie europee. Insomma la connessione non è stata riscontrata.
Il caso di Zhuara. A fronte dei massicci naufragi che si sono registrati negli ultimi mesi a Zuwara, considerato per anni il principale hub dello smuggling di trafficanti sulla costa libica, le partenze sono state bloccate in maniera perentoria dallo scorso agosto. Non partono più barconi perché la cosiddetta Unità Anti-crimine, meglio nota come gli “uomini mascherati”, ha creato un cordone solido contro il traffico di migranti nella città a 50 chilometri dal confine tunisino e per la prima volta sono stati arrestati smugglers locali. Tuttavia il sindaco della città Hafed Ben Sasi ha già messo in guardia l’Europa “Non sappiamo per quanto ancora saremo in grado di finanziare le operazioni anti – traffico. Purtroppo non riceviamo aiuti neanche da Tripoli e questo ci pone in una posizione di debolezza”.