L’Europa rifondata

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  di Guido Viale

Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti. La mossa di Angela Merkel è stata abile – le ha restituito una popolarità che la sopraffazione della Grecia aveva compromesso – e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e ad altre migliaia di cittadini europei – austriaci e tedeschi, ma anche e soprattutto ungheresi – di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici altri milioni di europei. Ma quella mossa non tarderà a rivelarsi un bluff.

Dopo aver detto che accoglierà tutti, sono cominciati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e paesi insicuri e tra profughi e migranti economici; e le assicurazioni che si tratta di una misura “temporanea”. Ma intanto con quella decisione unilaterale ciascun governo si sente autorizzato ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno. E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro; o di istituire un mercato dei “diritti di espulsione”, così come ne esiste già uno per i diritti di emissione (di CO2): si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo? Angela Merkel ha dato così un altro contributo a dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione che non sono nell’area Schengen e paesi Schengen non nell’Unione; paesi dell’Unione non nella Nato e paesi europei nella Nato ma non dell’Unione; paesi nell’Unione ma non nell’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc. Adesso, forse, ci saranno paesi dell’Unione esonerati – a pagamento o no – dalle quote di profughi. E quelli che li accoglieranno si sceglieranno le nazionalità più gradite?
L’accoglienza è destinata a diventare per l’Unione il problema maggiore: divide tra loro gli Stati membri impegnati a rimpallarsi le quote di profughi da ammettere; e fomenta al loro interno quello scontro sociale di cui si alimenta la xenofobia. Innanzitutto l’Unione non potrà avere una politica comune per accogliere profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza – casa, lavoro, reddito e sicurezza – a una quota crescente dei suoi cittadini. Quando il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 20 per cento, e in alcuni paesi il 50, è a un’intera generazione – anzi ormai a due – che vengono negate le forme basilari della cittadinanza. In queste condizioni è difficile pensare a una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia che si aprano loro le porte, sia che si punti su respingimenti inefficaci e spietati. Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassano le destre razziste e xenofobe che lo fomentano, ma a cui le forze di governo non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto delle politiche di tagli alla spesa pubblica e di soffocamento dei diritti, dei redditi e della sicurezza del lavoro. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare radicalmente quelle di bilancio. Per questo l’arrivo di un numero crescente di profughi rappresenta il vero tallone d’Achille dell’austerity.
Ma la ragione vera della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi Governi hanno assistito ignavi, quando non vi hanno partecipato direttamente o non hanno addirittura preso l’iniziativa, a massacri e guerre scatenate ai confini dell’Europa: quasi che la cosa non li riguardasse, impegnati com’erano, e sono, a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Se a rappresentare la politica estera dell’Unione figure insignificanti non è solo perché quella materia ogni Governo vuole riservarla per sé. Il fatto è che – a parte gli accordi commerciali, soprattutto per procurarsi petrolio e metano – nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: quella che nel corso degli anni si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima – ma non l’unica – conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. Francia e Regno Unito stanno già pensando a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia: che hanno perso, creando un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora, che siano i vertici dell’Unione e dei suoi Governi a risolvere il problema creato da centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della propria sopravvivenza è del tutto irrealistico. L’Unione europea vorrebbe respingerne la maggioranza, ma non è in grado di farlo: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che sta già facendo pagare alle sue vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cerca di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria, o un contadino che sta morendo di fame e di sete – sì, anche di sete – in uno stato subsahariano fossero diversi, nelle loro motivazioni alla fuga, da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa, o di tutti e quattro.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno brutale, da molti governi, sono state per qualche giorno rovesciate e sconfitte dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada che porta a Vienna, o al loro arrivo nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena facendo tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Perché dietro a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che – senza distinguere tra profughi e migranti economici – hanno cercato e cercano di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui stampa e media non avevano dedicato in sei mesi un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini e dei suoi compagni di merende.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore di vedersi portare via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo: consapevole, a differenza di molti suoi governanti (in sei mesi di Presidenza europea Renzi non aveva rivolto una sola parola alla soluzione del problema dei profughi) che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori dove si insedieranno; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione, qui, dove sono arrivati, di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione. Ed è in questo improvviso melting pot, che si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono dovuti fuggire: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni per pacificarli; che elaborino in forme condivise i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento, attraverso i mille legami che ancora  intrattengono con le comunità rimaste nei paesi di origine, per il loro riscatto. Una prospettiva che non può che fondarsi su una nuova visione dell’Europa, unita e non contrapposta alle popolazioni in fuga dai paesi in fiamme ai suoi confini vicini e lontani. Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.

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