Tortura, l’ombra del medioevo tra noi
di Stefano Rodotà
Quando nel discorso pubblico compare la parola “tortura”, immediatamente si determinano tensioni forti perché essa sfida altre parole, dalle quali sentiamo di non poterci separare come “dignità umana” e “democrazia”. Non sempre è stato così, perché si erano costruite forme di legittimazione sociale della tortura o addirittura s’era sperato che si fosse riusciti a confinare in un altro tempo non tanto la parola, quanto le pratiche che essa evoca. Infatti, quando nel 2000 si scrisse l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a qualcuno sembrò anacronistico l’aver ripetuto che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti”. Non era forse l’ombra d’un passato del quale ci eravamo faticosamente liberati? Poi sono venute le repliche impietose della cronaca e della storia. Le immagini delle violenze nella prigione irachena di Abu Ghraib hanno confermato la permanenza della tortura, le tecniche si sono aggiornate, la tortura viene “esternalizzata” in Paesi compiacenti dove gli Stati “democratici” trasferiscono persone alle quali estorcere informazioni con la violenza. La lotta al terrorismo produce nuove razionalizzazioni, si diffonde l’ossimoro “tortura umanitaria” per giustificarla con l’argomento della necessità di salvare vite umane. Ma così viene cancellata la frontiera tra chi combatte il terrore e chi lo pratica. Non è una affermazione astratta. Il waterbording, la tortura dell’acqua praticata dagli americani, viene utilizzata dall’Is. Ora anche la torpida Italia viene in qualche modo risvegliata. Ma non da rivelazioni inattese. Dal ritorno di una realtà che conoscevamo in ogni terribile dettaglio e che era stata deliberatamente rimossa, con il Parlamento da anni adagiato in una pigra inciviltà. La sentenza, unanime, della Corte europea dei diritti dell’uomo descrive come violenza cieca e ingiustificabile quel che avvenne nella scuola Diaz, ed è prevedibile che lo stesso accada per le analoghe vicende della caserma di Bolzaneto. La tortura è sempre violenza. Si manifesta, quasi allo stato puro, con lo strazio dei corpi, dove si mescolano punizione e esempio, affermazione di potere assoluto e annullamento dell’umanità dell’altro. Ma la violenza può essere finalizzata a un obiettivo specifico: ottenere informazioni su un possibile attentato o sul luogo dove si trova un ostaggio, far confessare un delitto, spingere all’abiura. Tutto questo era stato minuziosamente codificato, nei testi medievali la violenza era regolata, il dolore somministrato in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Ma questa tortura legalizzata, ricondotta ad un insieme di regole, è tornata negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, in particolare con la teorizzazione di un giurista già noto per la sua difesa dei diritti, Alan Dershowitz, che ha sostenuto la legittimità di una tortura regolata, limitata a forme e casi specifici, e per ciò sottratta all’arbitrio. Qui il confronto tra libertà e sicurezza giunge al suo limite estremo e sfida la necessità di rispettare corpo e dignità delle persone con l’argomento dell’eccezionalità e dell’impossibilità di rispettare le antiche regole delle guerre tra Stati quando la guerra si fa globale. Ma questo è argomento pericoloso. Proprio perché i conflitti hanno caratteristiche nuove, invocando regole anch’esse nuove, come la tortura legittima, non ci si avvede che in questo modo si creano le premesse perché ogni contendente possa esercitarla. Ma il caso della Diaz, come tanti altri, ci parla di una tortura che non ha altro fine che se stessa, facendo delle persone il puro oggetto dell’aggressione altrui. Sappiamo che giudici italiani, ben prima della sentenza di Strasburgo, erano stati consapevoli della impossibilità di condannare chi l’aveva praticata in assenza di una norma che la prevedesse. Parole al vento. Di che cosa s’impicciavano questi giudici, non si rendevano conto d’invadere il terreno della politica? E così ogni pretesto è stato buono per allontanare dal Parlamento il dovere di dare attuazione alla Convenzione dell’Onu sulla tortura. Le voci ragionevoli venivano spente, e il lungo silenzio parlamentare alimentava il silenzio della società, quasi che questa avesse accettato uno stillicidio di singoli casi di tortura come un piccolo prezzo da pagare per non turbare rapporti di potere descritti come necessaria difesa delle forze di polizia contro ingiustificate aggressioni. Il capovolgimento logico e politico è evidente. Non si potrebbe partire dalle libertà e dai diritti delle persone, ma dalle esigenze prioritarie della polizia, quasi che non avessero come fine proprio la garanzia di quei diritti. Una volta di più, solo un richiamo dall’esterno ci ha ricordato che esistono i diritti e che la loro tutela non può essere subordinata alla logica della sicurezza o a quella del mercato. Ora si spera che la discussione parlamentare sulla tortura non sia soltanto rapida, ma consapevole del fatto che siamo di fronte al principio di dignità e al diritto fondamentale all’inviolabilità del corpo. Dovremmo avere sempre presente l’ammonimento di Antonio Cassese, il giurista che con più rigore e coerenza ci ha aperto gli occhi sui guasti della tortura, ricordandoci che essa «costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia» e «perciò alligna in tutti gli Stati illiberali e nelle pieghe autoritarie delle strutture statali democratiche».
la Repubblica, 11 aprile 2015