Gad Lerner va alla guerra?
di Guido Viale
da L’ Huffington Post, 21 marzo 2015
Alla fine anche Gad Lerner si è messo l’elmetto: “Armiamoci e partite”. Una vera e propria dichiarazione di guerra. L’occasione è la strage al museo del Bardo di Tunisi. Il bersaglio è l’avanzata dello stato islamico in Libia e in tutta l’Africa settentrionale. “Fermarli – scrive su La Repubblica del 19 marzo – comporta un’assunzione di responsabilità troppo a lungo rinviata… siamo turbati dalle implicazioni militari della scelta che s’impone al nostro governo e all’Unione europea. Ma che, sia pure con tutte le precauzioni del caso, sarebbe ben più pericoloso rinviare ancora”. Spiace che quello che sta succedendo in Siria, in Libia, in Yemen – e prima ancora in Somalia, in Afghanistan e in Iraq – non abbia insegnato niente a Gad, della cui intelligenza sono pur sempre un estimatore. La prima cosa che colpisce in quell’articolo è che Gad non dice – perché non sa, come non lo sanno i ministri che ne parlano avendo il potere di deciderla e attuarla – che cosa dovrebbe fare in Libia, o altrove, una missione militare (cioè una guerra) guidata dall’Italia, ancorché sotto l’ombrello dell’Onu. Interventi di polizia internazionale finalizzati a portare ordine ne abbiamo visti fin dalla prima guerra del Golfo; e ogni volta la situazione che hanno lasciato si è rivelata peggiore di quella precedente, sia per l’ordine internazionale, sia, più ancora, per le popolazioni che ne sono state e ne sono vittime. L’espansione e l’efferatezza dello stato islamico non sono che una conseguenza – come ha riconosciuto lo stesso Obama – di tutti gli interventi che lo hanno preceduto, e gli stessi massacri di massa di cui l’Algeria è stata vittima vent’anni fa, e che Gad ricorda, sono stati promossi e messi in atto da un esercito di reduci dall’Afghanistan che gli Stati Uniti avevano armato, addestrato e aizzato per combattere, prima ancora dell’invasione dell’Unione sovietica, un colpo di Stato che l’aveva favorita sullo scacchiere internazionale. Certo garantire dei rapporti di cooperazione, innanzitutto culturali, tra la sponda settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo – di cui la Tunisia rappresenta al momento l’anello più importante e per questo più esposto – è vitale per il futuro di tutta l’Europa; e soprattutto per i paesi dell’Europa meridionale, oggi stretti tra due fuochi: dal lato sud, da una situazione di disordine e di sanguinosa belligeranza che ha la sua origine nella insostenibilità dei “modelli di sviluppo” (o di governo dell’economia) adottati in passato – un’intera generazione, in gran parte istruita, disoccupata e senza alcun futuro – che avevano dato origine alla stagione delle primavere arabe: quei moti soffocati in gran parte da nuove dittature o da guerre di tutti contro tutti innescate o rinfocolate dagli interventi armati delle potenze occidentali. Dal lato nord, da una politica cieca e sorda delle autorità di governo dell’Unione Europea che strangola economia e società e che avvicina sempre di più la situazione dell’Europa mediterranea a quella che ha animato le rivolte dei suoi dirimpettai della sponda sud. Situazione sociale e non solo economica, anche se media e politici ci hanno indotto a prestare attenzione solo a dati dei Pil, del debito e del deficit. Si è detto tante volte che Israele è il paese più occidentalizzato ed europeo del Medio Oriente, ed è vero. Quello a cui non si presta attenzione e che l’Europa si sta sempre più “israelizzando”. Se i govertni israeliani hanno importato dal Sudafrica d’antan alcuni tratti specifici dell’apartheid – una quota, ancorché di minoranza (ma la paura che diventi maggioranza sembra essere il problema principale all’ordine del giorno) di cittadini di serie B su base etnica, e una serie di bantustan (Gaza e i territori occupati) in cui rinchiudere un popolo a cui non si vuole riconoscere alcun diritto – ma che si teme in tutte le sue manifestazioni, alimentando così la psicosi di essere sotto assedio – ebbene, i cittadini di serie B su basi etniche li stiamo producendo – o stanno emergendo all’interno delle nostre città – anche in Europa: sono i cittadini europei di origine straniera di “seconda generazione” sempre più emarginati; o i Rom e i Sinti (e in molti paesi anche gli ebrei); e i migranti a cui non si vuole concedere la prospettiva di un futuro; ma sono soprattutto quelli che si cerca in ogni modo di tenere lontano, nei campi profughi dei paesi della sponda sud e orientale del Mediterraneo. Che vorremmo trasformare nei nostri Bantustan per impedire che tracimino verso i nostri paesi, ben sapendo che le guerre e la devastazione dei loro territori non offrono loro altra possibilità di scampo. E se è stato complicato per Israele costruire un muro alto sei metri che attraversa a zig-zag i territori dei loro vicini per spezzarne le comunità, quello che sta progettando l’Europa con Frontex e con le missioni belliche in preparazione non è nient’altro che un altro gigantesco muro: in parte già costruito con le reti che tengono lontani i migranti a Ceuta e Melilla o ai confini tra Grecia e Turchia e con gli accordi con cui si affida a sanguinarie dittature di alcuni paesi africani il compito di intercettare e respingere per conto nostro le persone che cercano di abbandonare le guerre, la desolazione e la miseria a cui l’assetto economico globale ha condannato i loro paesi. Poi c’è anche la missione militare in preparazione, il cui scopo è spostare la flotta di Frontex – e altro ancora – dal limite delle acque territoriali europee a quello delle acque dei paesi del lato sud del Mediterraneo per svolgere meglio lo stesso compito: respingere il flusso crescente dei disperati e con essi – questo è la “trovata” infame – i terroristi che potrebbero imbarcarsi con loro. Ma se il modo in cui Israele sta affrontando i suoi problemi non ha futuro, quello dell’Europa ne ha meno ancora. Non si dice – come fa invece, onestamente, Gad – che ciò da cui dobbiamo sentirci tutti minacciati non è l’invasione di un’armata dell’Isis, ma la moltiplicazione dei giovani indotti – o costretti – a trasformarsi in bombe umane, che possono agire ovunque senza che se ne possa in alcun modo prevenire le mosse, soprattutto perché crescono sempre più spesso proprio tra di noi (e per noi intendo sia le situazioni di emarginazione, o di umiliazione, in Europa che quelle sempre più simili alle nostre, dei paesi arabi del Mediterraneo o di quelli islamici dell’ex impero sovietico). Anche questa è una situazione che Israele ha già conosciuto e che ha pensato – e temporaneamente è riuscita – a tener sotto controllo con il muro. Ma per quanto? Contro quest’arma letale non c’è esercito, né intelligence, né guerra, né “missione umanitaria” – né tantomeno, “repulisti etnico” – che abbia la minima possibilità di successo. L’unica strategia sensata, ma di lungo termine (per cui dovremo abituarci a convivere per molto tempo con il terrorismo – come dobbiamo abituarci a convivere con la crisi, cioè con una gestione dell’economia finalizzata a riprendere tutto quello che le lotte del secolo scorso avevano strappato al potere del capitale) è lavorare per disseccare l’humus da cui traggono la loro forza sia il terrorismo suicida degli shahid che l’attrattiva di entità come lo stato islamico o la rete di Al Qaeda, che se ne fanno promotori. Questa strategia è fatta di lotte per l’eguaglianza e per la parità dei diritti di tutti coloro che sono vittime dell’attuale assetto di potere, cominciando ovviamente da chi ne è più colpito, cioè i migranti di prima e seconda generazione (d’altronde sono loro a costituire una base potenziale per una ricostruzione democratica dei paesi da cui provengono), le minoranze etniche emarginate, i giovani senza futuro a qualsiasi gruppo sociale appartengano. E poi, e soprattutto, le donne. Perché la vera posta in gioco di questa guerra è la conservazione o la restaurazione, nelle sue forme più brutali, del potere patriarcale dell’uomo sulla donna. Non è una guerra di religione: non c’è niente di religioso nel potere dell’Isis o del terrorismo di matrice islamica, come non c’è niente di religioso in chi difende la sostanza patriarcale delle radici giudaico-cristiane o greco-romane della nostra civiltà; né in chi contrabbanda per un processo di liberazione la mercificazione del corpo della donna realizzata in forme sempre più ostentate e offensive. Nell’affermazione concreta, giorno per giorno, di un potere reale delle donne nel far valere il loro punto di vista e i loro diritti – e ne abbiamo un esempio luminoso nelle comuni egualitarie del Rojava, che resistono da sole allo stato islamico – c’è l’arma, per nulla segreta, per minare alle sue basi sia le guerre del terrore scatenate da un falso Islam inventato di sana pianta, sia il richiamo alla purezza etnica o culturale contro le invasioni di cui si alimentano in Europa gli imprenditori politici della paura. Si possono anche giustificare interventi militari: le popolazioni direttamente esposte alle guerre spesso li invocano. Ma se non si lotta a fondo contro le discriminazioni e la cultura patriarcale a casa nostra, non si ferma il traffico di armi di cui si alimentano quelle guerre, non si elaborano congiuntamente delle vie di uscita diplomatiche, ci si avvita sempre più in un gorgo senza fondo.
http://www.huffingtonpost.it/guido-viale/gad-lerner-va-alla-guerra_b_6910712.html