Una rivoluzione ci salverà, se sarà No Triv
Le riserve di gas e petrolio prima o poi finiranno e se vogliamo un futuro dobbiamo investire in un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile. Non c’è altra soluzione
di Enzo Di Salvatore
Nel suo ultimo libro «Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile», Naomi Klein sostiene che la risposta politica al problema dei cambiamenti climatici debba essere radicale: occorre uscire celermente dalla lunga stagione dell’estrattivismo.
Se si assume come punto di partenza la questione dei cambiamenti climatici, non può che essere così. E non ci si dovrebbe sorprendere se si affermasse che né in Italia né altrove, né a destra né a sinistra, vi sia piena consapevolezza del problema.
Scrive la Klein: «In Grecia nel maggio 2013 mi stupii scoprendo che il partito di sinistra Syriza […] non si opponeva al fatto che la coalizione di governo accettasse nuove esplorazioni in cerca di petrolio e gas. Sosteneva invece che qualunque fondo ricavato dovesse essere speso per le pensioni, e non usato per ripagare i creditori. In altre parole, il partito Syriza non forniva un’alternativa all’estrattivismo, ma semplicemente aveva piani migliori per distribuirne i ricavi. Lungi dal vedere il cambiamento climatico come un’opportunità per sostenere la propria utopia socialista, come temono i negazionisti del cambiamento climatico, Syriza aveva semplicemente lasciato cadere l’argomento. Si tratta di qualcosa che il leader del partito, Alexis Tsipras, mi confessò piuttosto apertamente in un’intervista: «Eravamo un partito che aveva l’ambiente e il cambiamento climatico al centro del proprio interesse» disse. «Ma dopo questi anni di depressione in Grecia, abbiamo dimenticato il cambiamento climatico». Almeno è stato onesto.
Non so se Syriza e Alexis Tsipras abbiano nel frattempo maturato un’idea politica diversa in fatto di estrazioni, ma non sfugge che quanto la Klein scrive nel suo libro resti confermato da quanto si legge nella lettera che Syriza inviò al Coordinamento Nazionale No Triv la scorsa estate, in occasione del Convegno su «Difesa dei Beni Comuni e revisione della Costituzione», tenutosi a Crotone nei giorni 12 e 13 luglio: «Non abbiamo pregiudizi contro lo sfruttamento delle risorse energetiche e specialmente quelle sotterranee, ma deve essere chiaro che non si possono sacrificare le persone e l’ambiente per alimentare l’avidità delle multinazionali. La Grecia e il Sud Europa non devono diventare l’Eldorado delle multinazionali degli idrocarburi. Le risorse energetiche appartengono ai nostri popoli e devono essere gestite da loro, per loro e per il loro benessere. Non si tratta solo dei costi e benefici economici, ma di un’idea per la nostra vita e di un nuovo tipo di sviluppo ecosostenibile per uscire dalla crisi».
Si tratta, come si vede, di un’idea politica ancora nebulosa: quello che non è chiaro è se per Syriza il problema riguardi la perdita di “sovranità” in ordine alla gestione delle risorse energetiche (dalla mano privata alla mano pubblica), l’entità delle royalties (che presuppone che la gestione diretta delle risorse da parte delle multinazionali sia accettabile nella misura in cui a ciò corrisponda un significativo innalzamento dell’entità delle royalties) o l’abbandono del modello “estrattivista”, in luogo di un modello realmente ecosostenibile, che, come la Klein sostiene in relazione ai cambiamenti climatici, non può più alimentarsi di illusori compromessi.
Il problema sarebbe dato dalla crisi economica contingente, che impedisce qualsiasi prospettiva politica di lungo termine: essa costringe lo Stato ad intervenire alla bisogna, impedendogli di abbandonare il modello estrattivista e di aprire, almeno per il momento, alla transizione energetica.
Una diversa prospettiva sarebbe seguita dai movimenti, che agiscono in modo del tutto spontaneo e senza reali strutture di supporto. Essi sono popolari, nel senso più genuino del termine; muovono dal basso e trasversalmente rispetto ad un dato obiettivo; maturano presto la convinzione che l’azione spiegata si inserisca in un contesto latamente politico. E così è anche per il movimento che nel nostro Paese si oppone alla ricerca e alle estrazioni petrolifere: chi crede che si tratti di un movimento ambientalista non ha chiaramente compreso la reale portata di un fenomeno che è essenzialmente politica. In fondo, i contadini che in Basilicata, come altrove, manifestano in strada e si portano con i loro trattori fin sulla soglia dei palazzi istituzionali non trascorrono il proprio tempo a discutere di tesi ambientaliste o a valutare l’opportunità che ad un albero sia accordata speciale protezione o che una riserva naturale sia dichiarata patrimonio dell’umanità. Questa evenienza è, semmai, considerata solo in funzione dell’integrità territoriale, che sola consentirebbe, a sua volta, di preservare il contesto socio-economico necessario per l’esercizio delle attività agricole, turistiche e culturali. Per questo il movimento è radicale: perché, rispetto alla sinistra più tradizionale, che valuta la bontà di una certa azione alla luce del conflitto di classe, il rifiuto del modello estrattivista è dal movimento disancorato da tale presupposto di partenza, nella convinzione che solo se si avrà il coraggio di dire «no» potrà esservi spazio per un modello sociale eco-sostenibile. Da qui arriverà anche la risposta al problema dei cambiamenti climatici. Ma occorre far presto.images
La radicalità dell’azione del movimento si scontra con un’ideaaltrettanto radicale incarnata nell’ora attuale dallo “sblocca Italia”. La filosofia di fondo che ispira le previsioni contenute nel decreto sulle grandi opere, sull’edilizia, sugli inceneritori, sulle attività petrolifere è che la crisi economica possa essere sconfitta solo facendo cassa nel modo più semplice che si conosce: privatizzando ciò che è pubblico, i beni comuni, le risorse. La straordinarietà e l’urgenza delle misure adottate tradisce l’assenza di una strategia economica a lungo termine, priva di ogni riferimento ai due «pilastri» evocati da Papa Francesco nel suo discorso all’Expo 2015, e cioè «la dignità della persona umana e il bene comune». Nel caso italiano, lo Sblocca Italia è prova dell’incapacità – l’ennesima – di trovare una soluzione non occasionalista al problema indotto dalle politiche neoliberiste dell’Unione, che, in ragione degli obblighi contratti dallo Stato sul piano europeo, impongono di ridurre il deficit pubblico e il debito pubblico, secondo quanto prescritto dalla c.d. “governance economica europea”. Riduzione che passa non solo attraverso massicci investimenti nei settori sopra citati, ma – tra le altre cose – anche attraverso il taglio della spesa pubblica: il che vuol dire mettere a rischio lo Stato sociale.
La ciclica riduzione del Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO) delle Università si traduce nel problema della sopravvivenza degli Atenei e del diritto allo studio. In questa prospettiva, appare chiaro che, come accade in Basilicata, l’esercizio delle attività petrolifere risulti vitale per la sopravvivenza dell’Ateneo della Regione se si continua a far dipendere il suo funzionamento dalle royalties corrisposte dalle società petrolifere. Ciò comporta che la politica lucana non sappia esprimere un «no» deciso agli idrocarburi e contrastare, per conseguenza, i provvedimenti adottati dal Governo. Ci troviamo dinanzi ad un autentico circolo vizioso: in quasi quindici anni, i progetti petroliferi in Basilicata hanno inferto un grave colpo all’agricoltura, all’ambiente, al turismo. In breve: hanno messo in ginocchio l’economia locale e non risolto il problema dell’occupazione, visto che, dopo tutto, la Basilicata resta una delle Regioni più povere d’Italia. La ricetta offerta è quella del potenziamento delle attività estrattive e del parziale reinvestimento nella ricerca petrolifera di quanto versato dalle multinazionali nelle casse dello Stato.
Dal punto di vista economico, le attività petrolifere non sono compatibili con quelle agricole.
Il clamore suscitato dall’annullamento del permesso di ricerca “Colle dei Nidi” in Abruzzo ne è la prova lampante: la ricerca degli idrocarburi avrebbe interessato un’area di 83 kmq, coincidente in gran parte con le c.d. “Colline Teramane”, dove si produce olio d’oliva e si coltiva il Montepulciano DOCG, che vengono esportati in tutto il Mondo. Queste attività mai potrebbero essere delocalizzate altrove, posto che in Cina o in Romania l’uva del Montepulciano non potrebbe essere coltivata e se lo fosse non avrebbe certo quelle caratteristiche organolettiche. Per l’Italia, ma anche per altri Paesi dell’area mediterranea, investire massicciamente nell’agricoltura di pregio, nel turismo, nei beni culturali e ambientali potrebbe costituire una risposta credibile al problema della globalizzazione.
Quello che, invece, viene ripetuto come un mantra è che il progetto petrolifero lucano “Tempa Rossa” creerà nuovi posti di lavoro: grazie a Tempa Rossa verrà potenziata anche la raffineria di Taranto e alle centinaia di unità lavorative che al momento risultano impiegate nella città pugliese altre se ne aggiungeranno.
Il petrolio che verrà estratto in Basilicata e stoccato nella raffineria di Taranto durerà, però, venti o al massimo trent’anni. E questo potrebbe voler dire che chi entra in raffineria a vent’anni, ne uscirà disoccupato a quaranta o a cinquanta. Poco si dice, invece, delle centinaia di aziende agricole lucane che nel frattempo hanno dovuto chiudere i battenti.
La cosa che più sconcerta è che questa “inconsapevolezza” agisce comunque ad ogni livello. Nel novembre dello scorso anno, il segretario della FIOM Landini si è dichiarato favorevole alle attività petrolifere (raffinazione inclusa) e ha manifestato soddisfazione per il «Protocollo d’intesa per l’area di Gela», siglato a Roma tra l’ENI, il Ministero dello sviluppo economico, la Regione Siciliana, il Comune di Gela, Confindustria Sicilia e alcuni sindacati. In base al Protocollo, l’ENI si è impegnato a realizzare una parziale riconversione dell’area industriale della città, al fine di consolidare (anche) la vocazione manifatturiera della stessa. La riconversione e il risanamento ambientale sono stati tuttavia subordinati ad un preciso impegno: a che la Regione Siciliana consenta l’avvio di nuove attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi su tutto il territorio regionale e persino “nell’offshore adiacente”.
Insomma, la prospettiva accolta non è lungimirante: le riserve di gas e petrolio prima o poi finiranno e – anche a voler prescindere (si fa per dire) dal problema dei cambiamenti climatici – se vogliamo dare un futuro a chi verrà dopo di noi dobbiamo investire urgentemente nelle energie alternative e nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile e concretamente sostenibile.Non c’è altra soluzione.
L’azione che i movimenti stanno portando avanti contro lo Sblocca Italia passa anche attraverso il piano giuridico. Per chi è parte di un movimento, tale azione assume comunque un significato politico. Per questa ragione i Comuni lucani hanno fatto tuonare la propria voce contro le Istituzioni e chiesto alla Regione Basilicata di impugnare il decreto. Per questo stesso motivo manifestano il proprio dissenso alla revisione costituzionale in corso e lo faranno ancora attraverso l’arma del referendum quando il procedimento di revisione sarà concluso.
Le ragioni del dissenso le hanno esplicitate nel “documento di Crotone” del luglio dello scorso anno: essi ritengono che il riordino delle competenze legislative previsto dalla riforma vada a vantaggio dello Stato e a detrimento del ruolo delle Regioni. Se la riforma vedrà la luce, lo Stato potrà ergersi a decisore unico delle sorti dell’ordinamento locale, dei beni culturali e paesaggistici, del turismo, dell’energia, del governo del territorio, delle infrastrutture strategiche e di altre materie ancora. Per le associazioni e i comitati che hanno sottoscritto il documento, la ratio sottesa alla proposta sarebbe quella di impedire che le Regioni possano legiferare in futuro su tali materie, partecipare ai procedimenti amministrativi, sostenere proposte alternative eco-compatibili, opporsi alla realizzazione di numerosi progetti (come le grandi opere inutili e le infrastrutture strategiche), che le collettività locali e regionali contestano da tempo, per le evidenti implicazioni che hanno sui beni comuni e, in primo luogo, sulle risorse naturali.
Insomma, la filosofia che sorregge la revisione parrebbe essere quella di sempre: eliminare tutti quei lacci e lacciuoli che impediscono al Governo di assumere rapidamente una decisione e di riuscire a far fronte alla crisi nel modo che più gli è congeniale. Costi quel che costi. Anche se questo dovesse voler dire – come effettivamente vuole dire – privare tutti noi della possibilità di decidere del nostro destino.