PAPA CONTRO EXPO’

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di Guido Viale

Da Huffington Post

In quella grande kermesse del capitale che è l’expò, a dire le cose più importanti domenica scorsa è stato papa Francesco: inascoltato. Gli schermi d’Italia sono tutti per le felpe di Salvini; del papa che entra in un campo Rom, nemmeno un cenno! Comunque, estratte dal bozzolo religioso in cui le ha rinchiuse, che qui non interessa, le parole del papa forniscono ancora una volta, a livello planetario, le linee guida di un programma su cui costruire una nuova unità dei popoli in lotta.

Che cosa ha detto Francesco? Innanzitutto una cosa che a noi de L’Altra Europa suona familiare: “La prima preoccupazione deve essere la persona stessa”. Prima le persone! Poi ha fatto riferimento al paradosso dell’abbondanza: “c’è cibo per tutti [e io aggiungerei: non solo cibo, ma anche aria, acqua, suolo, energia, abiti, casa, spazio, natura, vita], ma non tutti possono mangiare [e avere le cose che gli spettano]”. Una delle condizioni per invertire questo paradosso è, anche per Francesco, che “non si usino gli alimenti [e tutto il resto] per altri fini”. E ha raccomandato tre atteggiamenti concreti: Primo, non andar dietro alle “urgenze”, ma concentrarsi sulle “priorità”; cioè “risolvere le cause strutturali della povertà”, tenendo presente che “la radice di tutti i mali è l’iniquità”: la diseguaglianza. Nel dire no a “un’economia dell’esclusione e dell’iniquità, un’economia che uccide”, occorre tenere conto che essa “è il frutto della legge di competitività per cui il più forte ha la meglio sul più debole”. In ciò non c’è solo la logica dello sfruttamento, ma anche quella dello scarto. Riecheggiando Zigmunt Bauman, papa Francesco ci avverte che “gli esclusi non sono solo esclusi o sfruttati, ma rifiuti, avanzi”. Ma per superare questo baratro occorre “rinunciare all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria”. Secondo: una sana politica economica deve partire dalla dignità della persona umana. E, aggiunge Francesco, dal bene comune (cosa quest’ultima, su cui io non concordo: il bene comune di sfruttati e sfruttatori non esiste). Ma quel “bene comune” diventa invece condivisibile se inteso, come fa Francesco, nella volontà di “moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo”. Terzo: “essere custodi e non padroni della terra”. E’ il rovesciamento di quanto ci è stato tramandato da tremila anni di cultura di matrice biblica e dalle cosiddette radici giudaico-cristiane dell’Occidente (“Riempite la terra e soggiogatela – dice Dio ad Adamo – abbiate domino sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”). Ma anche dalla secolarizzazione di quella matrice in epoca moderna. NO. La Terra, invece, ha i suoi diritti o, come dice Francesco, “ci è stata affidata perché possa essere per noi madre, capace di dare quanto necessario a ciascuno per vivere”. Qui c’è una svolta che riguarda tutti: “L’atteggiamento della custodia non è un impegno esclusivo dei cristiani”. Questa attitudine si chiama “sobrietà”; e non ha nulla a che fare con il loden di Monti e gli abiti stinti di Mattarella; e meno che mai l’austerità imposta dall’Unione Europea e dalla BCE; è l’unico modo accettabile per mettersi in un rapporto costruttivo con l’ambiente. “La Terra è un prestito che fanno i nostri figli a noi”, ricorda Francesco. Chiede “rispetto e non violenza o, peggio ancora, arroganza da padroni”. Ma per custodirla, aggiunge, “dobbiamo anche avere cura di noi stessi. Non dobbiamo aver paura della bontà, anzi, della tenerezza”.
Di fronte a queste parole “sante” spicca tutta la miseria di una manifestazione, quella svoltasi alla Bicocca, di cui Renzi si è reso protagonista, costruita per affidare alle multinazionali dell’agrobusiness e del cibo spazzatura, cioè ai veri responsabili della fame nel mondo, il compito di “nutrire il pianeta” – ovviamente con gli OGM – e di fornire “energia” – ovviamente fossile – “per la vita”. L’apoteosi di questo approccio è stato affidare alla Fondazione Barilla la stesura del manifesto dell’expò, la cosiddetta “Carta di Milano”: cioè di far sì che sia una multinazionale dell’industria agroalimentare a dirci come agricoltori e consumatori devono regolarsi per sottrarre un miliardo di esseri umani ai morsi della fame. E un altro miliardo all’obesità; che non è provocata dal troppo mangiare, ma dal cibo cattivo che le multinazionali ci fanno ingurgitare. Il modello adottato per “fare spettacolo” era quello della Leopolda: la messa in scena di decine e decine di “tavoli” intorno a cui far finta di discutere – per poco più di un’ora – tra “esperti” e invitati di lusso, senza dare loro nemmeno il tempo di capire di che cosa si dovesse parlare.
Bene ha fatto dunque il gruppo Costituzione e Beni comuni a convocare in contemporanea, nella sala più prestigiosa del Comune di Milano, un foltissimo gruppo di cittadine e di cittadini per ascoltare un controcanto all’expò, incentrato sulle tesi di un manifesto (che anche io ho firmato) di denuncia della scelta di far “nutrire il pianeta” dalle grandi corporation che lo affamano. Aperto da Susan George e concluso da Moni Ovadia, si sono alternate in questo incontro relazioni sul rapporto tra cibo e finanza,  sul peso e il ruolo delle multinazionali chiamate a sponsorizzare – e a occupare – i padiglioni dell’expò, sulle prospettive di utilizzo dell’area nel  dopo-expo e una denuncia dell’approccio ufficiale al tema di nutrire il pianeta: mancano in quell’approccio, è stato detto, l’acqua – presentata come merce; e messa in vendita, negli spazi stessi dell’expò,  dalla Nestlé – la sovranità alimentare – un principio che mette in discussione l’approccio al cibo fondato sull’agribusiness, sull’espropriazione dei contadini e sui combustibili fossili –  lo spreco – presentato non come il frutto di un modello produttivo distorto, perché fondato sul profitto, ma come occasione di politiche “caritatevoli”, per dare ai poveri quello che i ricchi buttano via – e l’obesità, di cui si è già detto.
Tutto bene. Ma l’expò non è solo questo. E’ molto di più; e  molto di peggio. L’expò è anche cemento e asfalto – a cui si è accennato di sfuggita – distruzione, con le sue appendici autostradali, di un habitat – suolo, prati, campi “bio”, fontanili, allevamenti –  e “affari”; che, quando sono in ballo Grandi Opere e Grandi eventi, significano inevitabilmente Grande corruzione (e corruzione “alla grande”). L’expò è anche introduzione in Italia del lavoro gratuito per i giovani che non ne trovano uno retribuito, e delle deroghe ai contratti, che sono state il laboratorio del Jobs act. Poi l’expò è un “esempio di scuola” di come coinvolgere in un’operazione di portata mondiale a favore del big business, degli OGM e della devastazione del pianeta, tante ONG e gran parte del volontariato, impegnandoli, con l’”expò dei popoli”, in un’operazione di green washing; e addirittura dando loro, con un margine di guadagno “che non si può rifiutare”, i biglietti di ingresso da rivendere a chi forse mai, altrimenti, li avrebbe comprati. Ma l’expò, come ci ripetono da cinque anni i suoi promotori, è soprattutto una “cultura”: quella dello “sviluppo”, o del “rilancio della crescita”, o dell’”uscita dalla crisi”, affidati non alla manutenzione quotidiana della città e del territorio, alla soluzione dei problemi dell’abitare, alla mobilità urbana e periurbana, al restauro di scuole e strade, alle fonti di energia rinnovabili, alla promozione di una cultura accessibile a tutti, al sostegno di vera innovazione; bensì al Grande Evento, alla manomissione del tessuto urbano, al cibo trasformato in spettacolo e in consumo, allo spreco eretto o modello di gestione. Purtroppo anche in una sede come il contro-convegno di Costituzione e Beni comuni, la dimensione “sistemica” dell’expò è stata dimenticata o volutamente omessa. Con una scelta sintetizzata nelle battute polemiche iniziali contro il movimento ormai internazionale dei No-expò, che farà da contraltare alla manifestazione ufficiale durante tutto il suo svolgimento, a partire dal prossimo Mayday. Una scelta giustificata con il fatto che ormai l’expò si fa e non si può più impedire; anche se forse sarebbe stato meglio non farlo. Ma proprio perché l’expò, così come è stato coltivato e propagandato per cinque anni, è una cultura complessiva e non un evento singolo, i suoi effetti vanno al di là del qui e ora e dureranno nel tempo. Rinunciare a denunciarne tutti i veleni, limitandosi alla sacrosanta contestazione del suo approccio al cibo, è stata una scelta un po’ miope.

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